“Nonostante la crescente attenzione verso la lingua e il linguaggio per i motivi più vari (es. inclusività, questione di genere, comunicazione gentile, ridurre la ‘pesantezza’ dei linguaggi settoriali), ancora pochi colleghi riflettono veramente sul valore e il significato delle parole.” Questa narrazione ben sintetizza, a nostro avviso, la responsabilità di chi comunica nel dare la giusta attenzione e dimensione alle parole affinché queste ultime non si traducano in forme di violenza, anche sottotraccia. È un tema centrale nel giornalismo e non riguarda solo la cronaca, come si potrebbe pensare, ma anche ambiti specialistici come quello della scienza. Ce ne siamo occupate nell’ambito del XV Master in Medicina Narrativa Applicata promosso da Istud Sanità e Salute, durante il quale abbiamo sviluppato il project work dal titolo “Scienza, Media e la grammatica della Slow Violence: riflessioni sulle forme di sensazionalismo nella comunicazione”.
Questo lavoro, che ci ha viste impegnate sei mesi, ci ha permesso di indagare alcuni aspetti che, in quanto giornaliste, vediamo e riscontriamo quotidianamente nel nostro lavoro. Lo abbiamo fatto attraverso la lente della medicina narrativa, una metodologia e una competenza relazionale che abbiamo appreso e applicato, con un intento “osservazionale”, allo studio di un altro tema di cui siamo venute a conoscenza sin dalle prime lezioni del Master e che ci ha particolarmente colpite: la slow violence.
La slow violence è definita come “una violenza che avviene gradualmente e lontano dagli occhi, una violenza di distruzione ritardata che si dissipa attraverso il tempo e lo spazio, una violenza attritiva che di solito non è considerata affatto violenza”. L’espressione è stata coniata nel 2011 da Rob Nixon per descrivere i comportamenti dannosi perpetrati dall’uomo nei confronti della Terra e, nel tempo, è stata accostata anche ad altri contesti. Uno di essi è quello sanitario e della comunicazione medico-paziente, come ha rilevato di recente lo sguardo attento di Maria Giulia Marini.
Per dirla con altri termini, la slow violence è una violenza che si fa largo in modo graduale, inconsapevole, impercettibile e non dichiarato (da qui la “lentezza” del suo affermarsi nel tempo e nello spazio a cui si riferisce l’aggettivo slow che non ha una connotazione associabile alla sostenibilità), a differenza della fast violence che ha toni chiari e accesi, anche volutamente.
Da giornaliste conosciamo bene il valore delle parole. Eppure è sotto gli occhi di tutti quanto i toni dell’informazione siano talvolta esagerati ed esasperati, mentre le parole, dal canto loro, possano essere travisabili. Notiamo tale tendenza anche nell’informazione scientifica che sta incontrando un rilievo crescente in termini sia di divulgazione sia di impatto sull’opinione pubblica, al punto che è spesso motivo di dibattito, spaccatura o fonte di sensazionalismo. Accade soprattutto quando al centro vi è la salute e la pandemia di COVID-19 ne ha dato dimostrazione.
Sebbene la scienza appaia più vicina rispetto al passato, parlarne significa aprirsi a un mondo in continuo divenire, accogliere l’incertezza, interrogarsi sui delicati rapporti tra ricerca, risultati e società. È un rapporto complesso in cui anche i media giocano un ruolo importante. Eppure, non sempre ne sono ritenuti all’altezza per la scarsa preparazione scientifica di base e la tendenza a cavalcare il sensazionalismo.
Tale quadro va inserito in un contesto di profonda trasformazione del giornalismo stesso. La grande mole di contenuti presente online, l’influenza dello storytelling, l’affermarsi di sempre nuove forme di giornalismo (crossmediale, costruttivista, partecipativo, d’impresa, ecc.), così come l’ampia varietà di fonti disponibili non sempre attendibili e la forte concorrenza sono tra i fattori che hanno contribuito a riplasmare il modo di fare informazione. Una notizia, infatti, per calamitare l’attenzione del lettore e guadagnare visibilità, può essere amplificata o distorta.
In questo scenario, trova una collocazione anche la slow violence? Se sì, in che modo?
Per rispondere a tali domande, senza la pretesa di voler formulare delle tesi o di giungere a conclusioni rappresentative di una tendenza certa, con il nostro progetto abbiamo cercato di esplorare il livello di conoscenza, consapevolezza e percezione dei colleghi rispetto a questo tema. Abbiamo voluto capire in quali eventuali forme la slow violence si declina nel loro lavoro quotidiano, quali conseguenze comporterebbe e quali prospettive gli stessi intravedono per il futuro.
Per farlo abbiamo applicato la metodologia della medicina narrativa, realizzando un’intervista narrativa scritta costituita da tracce semistrutturate (da queste ultime abbiamo tratto il virgolettato iniziale). Parallelamente, abbiamo sottoposto al nostro campione alcune immagini fotografiche diffuse dai media per valutarne l’impatto sul piano delle emozioni e comprendere se anch’esse, come le parole, possano veicolare slow violence.
Una discreta percentuale di colleghi, che ringraziamo per la collaborazione, ha scelto di confrontarsi con questa nostra proposta, narrando (in forma anonima e volontaria) il proprio modo di vedere e vivere la slow violence e consegnandoci, di riflesso, osservazioni e preziosi suggerimenti su come portare alla luce, trattare e arginare la slow violence.
I dettagli della ricerca saranno resi noti attraverso un comunicato stampa di prossima pubblicazione. Possiamo tuttavia anticipare una volontà emersa con forza, quella di essere informati e formati in maniera adeguata e specifica. La formazione continua, d’altronde, è una colonna portante della preparazione di giornalisti e comunicatori della scienza perché consente di rispondere con strumenti efficaci alle sempre nuove sfide che si pongono in un ambito così delicato.
Silvia Pogliaghi ed Elena Trentin, giornaliste e comunicatrici scientifiche