Oliver Sacks viene riconosciuto come una delle figure a cui dobbiamo la pratica della Medicina Narrativa, anche se questo nome viene dato successivamente.
Sacks si occupa di pazienti neurologici, interessandosi delle malattie e delle persone allo stesso tempo. Si considera, insieme, un teorico e un drammaturgo, attratto dall’aspetto romanzesco delle narrazioni oltre che da quello scientifico. Sacks si interessa al contesto in cui i suoi pazienti vivono, il loro ambiente, sempre rispettando le risorse messe in campo dai pazienti stessi, e diffonde – senza alterarle – queste narrazioni, diverse dai protocolli delle pubblicazioni scientifiche.
L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, del 1985, è una delle sue raccolte più famose.
Il dottor P. era un eminente musicista, che per parecchi anni godette di notorietà come cantante e in seguito come insegnante alla locale Scuola di Musica. Fu qui che per la prima volta, nei suoi rapporti con gli allievi, si manifestarono strani problemi. Talvolta, quando si presentava uno studente, il dottor P. on lo riconosceva, o più precisamente non riconosceva la sua faccia. Appena lo studente parlava, lo riconosceva dalla voce.
Simili incidenti si moltiplicarono causando imbarazzo, perplessità, paura – e a volte situazioni comiche. Perché al dottor P. capitava sempre più spesso non solo di non vedere le facce, ma anche di vederle là dove non c’erano: per strada, come il buon Magoo, gli capitava di dare affettuosi colpetti agli idranti e ai parchimetri scambiandoli per teste di bambini; rivolgeva gentilmente la parola ai pomelli dei mobili e si stupiva di non ricevere risposta. In un primo tempo questi curiosi abbagli passavano per scherzi ed erano accolti con una risata anche da parte dello stesso dottor P. Non aveva forse sempre avuto uno strambo senso dell’umorismo e amato paradossi e burle di gusto zen? Le sue facoltà musicali erano straordinarie come sempre; non accusava malesseri, non si era mai sentito meglio; e i suoi errori erano così assurdamente comici e così fantasiosi, che si sarebbe stentato a crederli autentici o indici di qualcosa di serio. L’idea che ci fosse qualcosa che «non andava» emerse solo circa tre anni dopo, quando insorse il diabete. Ben sapendo che questo poteva danneggiargli la vista, il dottor P. consultò un oftalmologo, il quale fece un’anamnesi scrupolosa e lo esaminò accuratamente. «I suoi occhi sono a posto» concluse poi. «Ma c’è qualcosa che non va nelle parti visive del suo cervello. Io non posso aiutarla, deve consultare un neurologo». Fu così che il dottor P. si rivolse a me.
Pochi secondi di colloquio mi convinsero che non vi era traccia di demenza nel senso comune. Il dottor P. , un uomo di grande cultura e fascino, parlava bene, con scioltezza, fantasia e umorismo. Non riuscivo a capire come mai fosse stato indirizzato alla nostra clinica. Ma a ben osservare, qualcosa di un po’ strano c’era. Parlando, era rivolto, orientato, verso di me, eppure c’era qualcosa di curioso, che però non riuscivo a tradurre in parole. Infine mi venne da pensare che si rivolgeva a me non con gli occhi, ma con le orecchie. Gli occhi, invece di guardarmi, di fissarmi, di «captarmi» normalmente, saettavano in modo curioso dal mio naso al mio orecchio destro, scendevano al mento, risalivano all’occhio destro, come se notassero (anzi studiassero) i singoli lineamenti, ma senza vedere la mia faccia nel suo Complesso, le sue mutevoli espressioni, «me» come un tutt’uno.
Non so se me ne resi pienamente conto quella volta – era solo una vaga e persistente stranezza, un difetto nella normale interazione fra sguardo ed espressione. Mi vedeva, mi esplorava, eppure…
«Che c’è che non va? » gli chiesi infine.
«Che io sappia, niente» rispose con un sorriso «ma secondo gli altri avrei qualcosa agli occhi».
«Ma lei non accusa nessun problema di vista? ».
«No, direttamente no, ma a volte faccio un po’ di confusione».
Uscii un istante dalla stanza per parlare con la moglie. Quando rientrai il dottorP. era tranquillamente seduto vicino alla finestra, e più che guardare fuori ascoltava attento. «Il traffico, » disse «i rumori della strada, i treni in lontananza…Formano una specie di sinfonia, non le pare? Conosce Pacific 234 di Honegger? ».
Che persona deliziosa, pensai. Come può esserci qualcosa di serio? Mi permetteva di visitarlo?
«Ma sì, certo».
Nella tranquillizzante routine di un esame neurologico – forza muscolare, coordinamento, riflessi, tono…- calmai la mia inquietudine, e forse anche la sua. Fu mentre esaminavo i suoi riflessi – leggermente anormali sul lato sinistro – che accadde il primo fatto strano. Gli avevo tolto la scarpa sinistra e sfregato la pianta del piede con una chiave – una prova di riflessi all’apparenza banale ma determinante – poi mi voltai ad avvitare l’oftalmoscopio, in attesa che lui si rimettesse la scarpa. Dopo un minuto mi accorsi con sorpresa che non l’aveva ancora fatto.
«Posso aiutare? » chiesi.
«Aiutare chi? A fare che cosa? ».
«Aiutare lei a mettersi la scarpa».
«Oh, » disse «avevo dimenticato la scarpa» e aggiunse sotto voce: «La scarpa?La scarpa? ». Sembrava sconcertato.
«La sua scarpa» ripetei. «Non deve rinfilarsela? ».
Lui guardava sempre in basso, non la scarpa però, con una concentrazione intensa ma male indirizzata. Infine il suo sguardo si posò sul piede: «É questa la mia scarpa, vero? ».Avevo sentito male? O aveva visto male lui?
«I miei occhi» spiegò, e si mise una mano sul piede. «É questa la mia scarpa, no? ».
«No. Quello è il suo piede. La sua scarpa è lì».
«Ah! Credevo che fosse il mio piede».
Stava scherzando? Era pazzo? Cieco? Se questa era una delle sue «strane confusioni», era certo la più strana in cui mi fossi mai imbattuto.
Lo aiutai a sistemare la scarpa (il piede) per evitare ulteriori complicazioni.Quanto a lui, sembrava tranquillo, indifferente, forse divertito. Ripresi la mia visita. La sua acutezza visiva era buona: non aveva difficoltà a vedere uno spillo sul pavimento, anche se talvolta, quando veniva messo alla sua sinistra, non lo trovava.
Vedeva benissimo, ma che cosa vedeva? Aprii una copia del «National Geographic Magazine» e gli chiesi di descrivere alcune foto.
Le sue risposte furono curiosissime. I suoi occhi si spostavano rapidi da una cosa all’altra, cogliendo tratti minuscoli, isolati, come avevano fatto con la mia faccia. Una forte luminosità, un colore, una sagoma trattenevano la sua attenzione e suscitavano un commento, ma in nessun caso colse la scena nella sua totalità. Non riusciva a vedere l’insieme, vedeva solo dettagli, che individuava come puntini sullo
schermo di un radar. Non entrò mai in relazione con l’immagine come un tutto, non affrontò mai, per così dire, la fisionomia dell’immagine. Non aveva il minimo senso di un paesaggio o di una scena. Gli mostrai la copertina, una distesa ininterrotta di dune del Sahara.
«Che cosa vede? ».
«Vedo un fiume» disse. «E un piccolo albergo con la terrazza sull’acqua. Sulla terrazza c’è gente che mangia. Qua e là vedo ombrelloni colorati». Stava guardando, se questo era «guardare», fuori della copertina, a mezz’aria, e confabulava di elementi inesistenti, come se l’assenza di elementi nella foto lo avesse spinto a immaginare il fiume, la terrazza e gli ombrelloni colorati.
Devo aver avuto un’aria esterrefatta. Il dottor P. invece pareva soddisfatto delle sue risposte e accennava un sorriso. Poi, evidentemente convinto che la visita fosse finita, si guardò intorno alla ricerca del cappello. Allungò la nano e afferrò la testa di sua moglie, cercò di sollevarla, di calzarla in capo.
Aveva scambiato la moglie per un cappello! La donna reagì come se fosse abituata a cose del genere.