La parola fiducia deriva dall’omografa parola latina che aveva significato di “fiducia”, ma anche di “coraggio, sicurezza” e nel lessico legale quello di “pegno, garanzia”. Pertanto, non proviene dal latino fides (“fede, convinzione, credenza”), come a prima vista potrebbe sembrare. Tuttavia, il verbo fidere è all’origine di entrambe le parole: fidese fiducia sono quindi sorelle e non madre e figlia.
Il significato giuridico di fiducia aiuta forse a cogliere quello che è il cuore di un concetto così difficile da definire in relazione alla sua sorella fede. La “garanzia” è infatti il segno concreto dell’impegnarsi, a differenza della fede che è invece un affidarsi senza garanzie. Tuttavia, sarebbe riduttivo e sbagliato concepire la fiducia come una transazione commerciale con tanto di contratto e libro mastro: la fiducia è bidirezionale e coinvolge necessariamente almeno due parti, due esseri umani. Si parla infatti di “fiducia reciproca”, non di “fede”. La fede è un abbandonarsi a entità invisibili, intangibili e imponderabili.
Fidarsi di qualcuno, che sia un amico o un curante, richiede coraggio. È un gesto che espone, che si fonda sulla concessione di un pezzo di sé all’altro. Non a caso, infatti, il verbo che più comunemente indica l’inizio di un rapporto di fiducia è dare e quello che segna la fine è perdere.
Inoltre, la base di una relazione di fiducia è continuamente messa alla prova: ogni azione o parola è sottomessa al giudizio dell’altra parte, e, se non ritenuta conforme al tacito patto, il fondamento stesso del rapporto di fiducia viene meno e il riconquistarlo è processo difficile e non sempre concretizzabile.
Ma non bisogna considerare solo il negativo, la possibile perdita. Un rapporto di fiducia è prima di tutto anche un legame forte, che unisce le persone proprio perché è un concedersi all’altro e contemporaneamente un custodire.
Nel rapporto clinico, per esempio, il paziente affida al curante una parte del proprio corpo, la propria mente o addirittura la vita. Letteralmente il paziente si “mette nelle mani” del curante, compie un atto di fiducia nelle competenze dell’altro. Il curante, dal canto suo, deve essere all’altezza, non promettere miracoli e relazionarsi con il paziente ricordando che si tratta di una persona, non di un insieme di sintomi. Sarebbe un errore confondere la fiducia del paziente nel medico per fede; il patto stretto, infatti, coinvolge ambo le parti e non è unidirezionale.
Lasciateci per favore una parola per il vostro sentimento della fiducia.