UNA PAROLA IN QUATTROCENTO PAROLE – COMPASSIONE

Henri de Toulouse-Lautrec, Le due amiche, 1894

La parola compassione deriva dal latino compassio, calco dal greco antico συμπάθεια [sumpatheia], composto di σύν [sun] e παθητικός [patheticos]. Σύν è una preposizione che è traducibile quasi perfettamente con le sfumature del nostro “con”, mentre παθητικός è colui che atto o soggetto al patire.

La condizione della συμπάθεια è la conformità del sentire, il sentire allo stesso modo di due persone. Il calco (ossia la traduzione letterale di una parola, delle sue componenti o di un’espressione) latino esprime esattamente lo stesso concetto del greco, ossia quello di una comunanza, di una corrispondenza di sentimenti.

La moderna compassione è definita come un “sentimento di pietà verso chi è infelice, verso i suoi dolori, le sue disgrazie, i suoi difetti; partecipazione alle sofferenze altrui”. Tuttavia, una simile definizione non la rende molto diversa dall’empatia o dalla pietà, ma nell’economia di una lingua è molto raro che parole diverse esprimano esattamente lo stesso concetto.

  • La pietà presuppone una differenza di condizione tra le due parti coinvolte: una delle due si sente in una condizione “migliore” o “privilegiata” rispetto a quella compatita.
  • L’empatia non ha nulla di paternalistico ed esprime la comprensione dello stato d’animo dell’altro. Ovviamente questa comprensione può essere più o meno partecipata, ma non necessariamente sfocia in azione.
  • La compassione infine è distinta dalle precedenti proprio perché è una profonda consapevolezza della sofferenza dell’altro unita a un desiderio di alleviarla. Quest’ultimo spesso si converte in azione.

L’uomo, il paziente e la malattia sono tre concetti diversi. La compassione nei confronti dell’uomo – e non la pietà verso il paziente – è un sentimento che può alimentare positivamente il processo di cura, permettendo di capire la sofferenza e l’individualità dell’altro e di comunicare con lui nel modo migliore.

I più recenti studi di psicolinguistica hanno ormai reso inconfutabile quanto il linguaggio influenzi il nostro modo di pensare e percepire il mondo. Saper quindi costruire la giusta narrazione, chiara, efficace ed empatica è pertanto un’abilità che un curante compassionevole deve coltivare. È infatti la parola di compassione che può avviare il processo di cura e collabora ad instaurare il rapporto di fiducia tra medico e paziente.

In conclusione, si potrebbe dire che la pietà può essere un vicolo cieco mentre la compassione è sempre una finestra aperta sulla speranza.

Lasciateci per favore una parola per il vostro sentimento della compassione.

Enrica Leydi

Milanese di nascita, ha conseguito la laurea triennale in Lettere Moderne presso l'Alma Mater Studiorum - Università di Bologna. Sta attualmente completando il corso di laurea magistrale in Italianistica, sempre presso la medesima università emiliana. Collabora con ISTUD da aprile 2021 in qualità di coordinatrice della rivista «Cronache di Sanità e Medicina Narrativa».

Questo articolo ha un commento

  1. Michela Frassinelli

    La panchina. Differente da due sedie separate.

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