La parola compassione deriva dal latino compassio, calco dal greco antico συμπάθεια [sumpatheia], composto di σύν [sun] e παθητικός [patheticos]. Σύν è una preposizione che è traducibile quasi perfettamente con le sfumature del nostro “con”, mentre παθητικός è colui che atto o soggetto al patire.
La condizione della συμπάθεια è la conformità del sentire, il sentire allo stesso modo di due persone. Il calco (ossia la traduzione letterale di una parola, delle sue componenti o di un’espressione) latino esprime esattamente lo stesso concetto del greco, ossia quello di una comunanza, di una corrispondenza di sentimenti.
La moderna compassione è definita come un “sentimento di pietà verso chi è infelice, verso i suoi dolori, le sue disgrazie, i suoi difetti; partecipazione alle sofferenze altrui”. Tuttavia, una simile definizione non la rende molto diversa dall’empatia o dalla pietà, ma nell’economia di una lingua è molto raro che parole diverse esprimano esattamente lo stesso concetto.
- La pietà presuppone una differenza di condizione tra le due parti coinvolte: una delle due si sente in una condizione “migliore” o “privilegiata” rispetto a quella compatita.
- L’empatia non ha nulla di paternalistico ed esprime la comprensione dello stato d’animo dell’altro. Ovviamente questa comprensione può essere più o meno partecipata, ma non necessariamente sfocia in azione.
- La compassione infine è distinta dalle precedenti proprio perché è una profonda consapevolezza della sofferenza dell’altro unita a un desiderio di alleviarla. Quest’ultimo spesso si converte in azione.
L’uomo, il paziente e la malattia sono tre concetti diversi. La compassione nei confronti dell’uomo – e non la pietà verso il paziente – è un sentimento che può alimentare positivamente il processo di cura, permettendo di capire la sofferenza e l’individualità dell’altro e di comunicare con lui nel modo migliore.
I più recenti studi di psicolinguistica hanno ormai reso inconfutabile quanto il linguaggio influenzi il nostro modo di pensare e percepire il mondo. Saper quindi costruire la giusta narrazione, chiara, efficace ed empatica è pertanto un’abilità che un curante compassionevole deve coltivare. È infatti la parola di compassione che può avviare il processo di cura e collabora ad instaurare il rapporto di fiducia tra medico e paziente.
In conclusione, si potrebbe dire che la pietà può essere un vicolo cieco mentre la compassione è sempre una finestra aperta sulla speranza.
Lasciateci per favore una parola per il vostro sentimento della compassione.
La panchina. Differente da due sedie separate.