Lo scorso mese, settantasei accademici – tra cui Trisha Greenhalgh – provenienti da undici diversi paesi hanno scritto agli editori del BMJ, esprimendo preoccupazione rispetto al fatto che gli articoli che seguono una metodologia qualitativa o mista siano spesso respinti sulla base di una presunta “bassa priorità” e “mancanza di valore pratico”.
È un commento che chi prova a pubblicare su riviste scientifiche ponendo metodiche qualitative ben conosce. E lo conosciamo anche noi: ricordiamo l’esperienza della pubblicazione dell’articolo “Narrative Medicine to highlight values of Italian pain therapists in changing health system”, riguardante i terapisti del dolore e integrante metodi di ricerca quantitativi e strumenti narrativi.
La risposta alla prima submission, fatta a una prestigiosa rivista europea, è stata “We will not forward your article to any referees, because we publish only quantitative results”: una risposta che rispecchia il modo in cui ancora ragionano moltissime riviste scientifiche specializzate, che lasciano alla narrazione solo la presentazione di qualche sporadico caso clinico.
Ma non abbiamo voluto pubblicare il nostro lavoro di Medicina Narrativa su una rivista specifica per le Scienze Sociali o le Medical Humanities: così facendo, avremmo continuato a tenere nascosta la parte umanistica ai terapisti del dolore e agli operatori che operano in questo campo. E alla fine ce l’abbiamo fatta, grazie all’apertura mentale e al coraggio dell’editor-in-chief di Pain Management.
Di certo alcuni articoli qualitativi possono essere di bassa qualità, scritti male o in modo inaccessibile, o poco rilevanti per la rivista a cui gli autori richiedono la pubblicazione: ma sappiamo anche che questo prescinde dalla metodica utilizzata, e vale per articoli e ricerche anche non qualitativi.
Ma l’obiettivo che si pongono le riviste scientifiche è quello di guidare il dibattito sulla salute e di coinvolgere, informare e stimolare tutte le figure professionali che si muovono nel campo della sanità e della salute, di modo da renderli in grado di meglio indirizzare le loro scelte e che questo abbia risvolti positivi per i pazienti. In questo, i metodi quantitativi rispondono ad alcune questioni cliniche, mentre altre dimensioni sono meglio individuate da metodi di ricerca qualitativi. Come sottolineato anche nella lettera al BMJ, gli studi qualitativi ci aiutano a capire meglio il vissuto dei pazienti che affrontano le terapie e dei curanti, e perché alcuni interventi clinici non sempre funzionano. Inoltre, questi studi esplorano le complesse relazioni tra il sistema sanitario e il contesto sociale, culturale e politico di riferimento.
Come nota Greenhalgh, tradizionalmente i medici hanno dato un enorme peso ai dati numerici, che però – rispetto ad alcuni temi – possono essere fuorvianti, riduzionisti, e irrilevanti. La popolarità della ricerca qualitativa nelle scienze biomediche è aumentata proprio perché i metodi quantitativi non sono riusciti a rispondere ad alcuni aspetti della cura, o hanno dato risposte sbagliate. Citando Nick Black, professore alla London School of Hygiene and Tropical Medicine, svalutando la ricerca qualitativa corriamo il rischio di ricercare solo ciò che è misurabile, e non ciò che è rilevante.
Ridare una dignità agli studi qualitativi nelle riviste scientifiche, e dare loro la stessa priorità degli studi quantitativi, può solo portare benefici per tutti gli attori coinvolti nel contesto della cura, aprendo nello stesso tempo nuove questioni metodologiche, filosofiche ed etiche.