Qualche parola per presentarsi….
Sono una biologa nutrizionista. Dopo vari anni di ricerca scientifica nell’ambito dei tumori ho cambiato direzione. Il ruolo di nutrizionista era contemplato tra le attività professionali per gli iscritti all’albo dei biologi, quindi ho deciso di dedicarmi alla nutrizione frequentando master e corsi di specializzazione, perché il mio corso di laurea all’epoca non implicava lo studio della nutrizione umana. Ora sono tredici anni che svolgo questa attività, ma mi sono resa conto subito di quanto fosse importante considerare, oltre alle competenze scientifiche, anche le medical humanities[1], per entrare in contatto in maniera più profonda con i miei pazienti e per stimolare in loro maggiore consapevolezza. Quindi, alla fine, ho conseguito il diploma professionale in counseling e più recentemente il master in Medicina Narrativa di Istud.
Come si inserisce la medicina narrativa nel suo lavoro?
L’idea di utilizzare la narrazione come strumento per raggiungere un livello superiore di consapevolezza e per acquisire benessere nasce dal periodo di formazione in counseling. Ogni volta che, sollecitata dagli opportuni stimoli narrativi, appoggiavo la penna sul foglio di carta, mi si dipanava davanti un mondo di intuizioni. Nel mio lavoro consiglio ai miei pazienti di tenere il diario alimentare, nel quale possono scrivere anche le emozioni che hanno provato durante la loro giornata. Ho riscontrato che, chi lo fa, ottiene risultati migliori, sia in termini di benessere interiore che relativamente ai loro obiettivi di peso. È immediato il riscontro, nel corso dei colloqui nei quali si dipana il percorso, che la storia della vita delle persone va di pari passo con la storia del loro peso. Gli eventi della vita, infatti, si correlano con il rapporto con il cibo, da cui deriva la forma del corpo. Il racconto del quotidiano si collega con l’aumentata capacità di gestire il tempo della giornata, così come quella di gestire le proprie abitudini correlate alle emozioni. Questo racconto è decisivo perché permette alla persona di scardinare i comportamenti poco funzionali nei quali è incastrata. Il racconto, quindi, è il tema e la medicina narrativa è lo strumento, che permette di sistematizzare il tutto. Non tutti riescono a mettere in atto il suggerimento di scrivere di se stessi, ma quelli che lo fanno, in genere, mostrano una migliore compliance.
Pensa che la medicina narrativa abbia cambiato il suo approccio professionale? Se sì, quale legame le permette con il paziente?
Il mio approccio virava già molto sul lavoro di consapevolezza piuttosto che sul mero calcolo delle calorie. Il fatto dell’avere degli strumenti codificati mi permette di inserire la medicina narrativa all’interno di binari che non sono però privi di estro artistico. Può capitare, ad esempio, di far disegnare al paziente il proprio diario o di farlo leggere.
Anche la mia formazione di counselor mi permette di utilizzare metodi che vanno oltre il linguaggio scritto e orale. È chiaro che, avere l’intenzione di collaborare con il paziente e di lavorare come una loro partner, cambia la qualità del legame. Nel momento in cui la relazione diventa di fiducia, il cliente si sente disposto ad aprirsi e ad utilizzare strumenti che non gli sono congeniali.
Credo che la qualità di questo tipo di legame, che si crea passo dopo passo, rende il mio lavoro di sicuro piu appagante e più consono alla mia natura.
È richiesto al professionista della nutrizione un approfondimento con un professionista della comunicazione (ad esempio, counseling, psicologo…)
Non ci è richiesto di fare un lavoro su di noi, non ci viene dato l’input di cercare di drenare il nostro vissuto per non “contagiare” i pazienti. Ma io trovo che questo sia grave, perché questa professione può incidere molto sulla vita di un paziente, anche dando solamente indicazioni in termini di stile di vita. Si esercita un controllo su quella persona riguardo a atti che compie più volte al giorno, tutti i giorni. Quindi se il professionista non è già equilibrato mentalmente e emotivamente o non fa del suo meglio per esserlo, rischia di proiettare il proprio vissuto sul paziente. Così, si rovinano i pazienti con diete violente, non salutari e con indicazioni brutali. Io credo che sia importante fare un lavoro di autoconsapevolezza, non appena si intraprende questa carriera, ricercando il motivo della “vocazione”, e fare un lavoro di supervisione rispetto ai casi, perché, spesso, accade di confrontarsi con persone che portano storie caratterizzate da un dolore profondissimo, persone malate o che si ammalano, persone che muoiono, persone che non si comportano in maniera corretta, persone che sono poco affidabili, persone che non è possibile aiutare, persone che “abbandonano” manifestando la loro sfiducia e insoddisfazione, e quindi di confrontarsi con le proprie fragilità, che possono manifestarsi non solo per un momento di stanchezza per il troppo lavoro, la paura per il futuro, un’enorme concorrenza nel lavoro, ma anche perché non si sono indagate a fondo le ragioni della propria “vocazione”, e non si lavora quotidianamente sulla propria saldezza emotiva.
Tutto questo, nel professionista, rischia di generare, born out e un deterioramento della qualità del lavoro con i pazienti.
Cosa pensa del sostegno psicologico nella comunicazione con il paziente?
Penso che sia necessario. Le lauree magistrali in scienze della nutrizione, in Italia, hanno ancora piani di studi pretamente tecnico-scientifici. Però, anche se raramente, l’ordine dei biologi, stimola la partecipazione a qualche corso in cui vengono impartiti i primi rudimenti della comunicazione tra noi professionisti e il paziente, affinché si migliori la compliance di questi ultimi. Spesso, infatti, il paziente rischia un fortissimo dropout e un fallimento a lungo termine dell’approccio terapeutico attraverso la dieta. Quindi, in sintesi, sarebbe opportuno, non solo durante il corso di laurea, ma anche durante la fase lavorativa, fare un percorso personale sulla motivazione e sulla vocazione per svolgere il lavoro e fare un percorso di supervisione per drenare la fatica psicologica.
Ascolto attivo del paziente, quando applicarlo e come integrarlo all’approccio più normativo, le decisioni dietetiche da prendere?…
Trovare una sintesi tra l’approccio da counseling che è non giudicante, non direttivo e non verticale e la richiesta che il paziente fa al professionista della nutrizione, “dimmi cosa devo fare”, è molto difficile.
Io ho scelto un approccio in cui cerco di essere partner in un percorso che puo portare esattamente dove l’altra persona vuole. Quello che io chiedo ai pazienti, da subito, è decidere quale vita vogliono fare. Io posso dare delle indicazioni, posso dire quali sono le modalità più funzionali sulla carta, per ottenere eventualmente una perdita di peso o un maggiore stato di benessere, ma poi alla fine il risultato deve indirizzarsi verso una vita “felice”. Questo percorso non deve essere una fatica che si aggiunge a un’altra fatica, ma deve essere sostenibile nel quotidiano e “assomigliare” al paziente, nelle sue aspettative di vita e nelle sue aspirazioni. Il professionista e il paziente lavorano per cercare di portare il focus sul benessere, ossia su qualcosa che non è percepito come una sofferenza ma che viene vissuto come una coccola.
Il mio lavoro credo che si incentri sulla possibilità di attuare il libero arbitrio e sulla presa di coscienza del principio di realtà. Ci sono alcune cose che funzionano, altre che funzionano meno, puoi decidere tu come utilizzarle, consapevole che, qualunque atto uno svolga nel quotidiano, dovrebbe essere indirizzato all’essere sereni e al livello massimo di piacere sano. Ad esempio, accedere in maniera forsennata al cibo non è libertà.
In sintesi, non è banale riuscire a far trovare ai pazienti un equilibrio grazie al quale riescano ad autogestirsi, ma quando accade la soddisfazione di aver fatto insieme un lavoro prezioso è enorme.
Sono più le donne o gli uomini a chiedere consulenza e quali sono i motivi che li spingono a chiedere “aiuto”?
Rispetto alla mia esperienza, il filtro da tener presente è che le persone che vengono da me, lo fanno per passaparola. Se io vengo suggerita, vengo suggerita sulla base del tipo di approccio che ho, cioè di scandagliare le emozioni in profondità, spostando l’obiettivo su come le persone mangiano, su come sono anche sulla base di come mangiano e in quale maniera fare un lavoro di cambiamento piu profondo per ottenere anche, ma non solo, la perdita di peso. Occorre tenere presente quindi che si tratta di un lavoro di “apertura” significativo, che richiede attitudine e disponibilità all’elaborazione del proprio vissuto emotivo, che statisticamente sono caratteristiche maggiormente femminili.
Rimanendo quindi nell’ambito del mio personale “osservatorio”, posso dire che emerge molto evidente la discrepanza tra i dati epidemiologici relativi all’incidenza di sovrappeso e obesità tra uomini e donne e l’effettivo accesso al mio servizio. In Italia, infatti molti più gli uomini in sovrappeso e obesi rispetto alle donne: nello specifico, il 44% uomini contro il 27% donne sono in sovrappeso, e il 10% degli uomini contro il 9% delle donne sono obesi. Rispetto alla mia esperienza, fotografando oggi la distribuzione per sesso delle 177 persone che stanno effettuando un percorso con me, il 78% sono donne e il 22% sono uomini.
Dalle mie stime, quindi, vista la significativa sproporzione che emerge da questi dati, sembra che, per quanto un uomo possa essere in sovrappeso, percepisca con meno urgenza il problema e sia maggiormente riluttante a prendersi la responsabilità di un cambiamento profondo e duraturo.
Gli uomini tendono a venire perché spesso sono spinti dalle mogli e a volte sono queste ultime a telefonare al loro posto. Oppure, vengono da me perché hanno avuto problemi di salute. I più giovani, invece, vogliono una dieta adatta al tipo di allenamento che fanno per ottenere o ricostruire la massa muscolare, ma, raramente l’input che arriva, da loro, è voglio essere più bello.
Molto più rari, rispetto alle donne, sono gli uomini tra i 40 e i 50 anni, questi ultimi sono, spesso, persone che hanno fatto molto sport da giovani e poi, quando hanno smesso, non hanno saputo rapportare la quantità di cibo immesso al nuovo stile di vita.
La maggior parte delle donne che vengono da me, invece, si presentano insieme alla falsa credenza che essere grasse è inaccettabile. Spesso, sono persone che si sentono grasse anche se sono normopeso o che si sentono grasse anche se leggermente in sovrappeso e questo le ha portate a provare ogni sorta di dieta. La molla è sempre un problema estetico, di accettazione, che nasce da quando sono bambine o ragazzine, a causa anche di alcuni approcci di pediatri che tendono a stigmatizzare “il problema”. Spesso sono persone che hanno vissuto un conflitto profondo con il corpo e con il cibo, ritenuto il mezzo che modifica il corpo e non esente da giudizio morale (cibo buono e cibo cattivo). Nel profilo della donna sposata con figli, nel mangiare senza regola, c’è l’unica forma di libertà nel loro quotidiano. Si sentono pressate da questo compito incessante della tutela degli altri, ma, così facendo, si allontanano da loro stesse e perdono di vista la necessità di fare attività fisica e di avere del tempo libero per la crescita personale, per momenti di relax. Si ritrovano a provare piacere soltanto nel cibo, questo genera la suprema insoddisfazione di avere un corpo che non è conforme al loro ideale di bel corpo e il cibo, che era già diventato sedativo emotivo o il luogo del dilaniare, diventa causa del loro sentirsi brutte, grasse e non amabili.
Ci sono dei punti in comune? Quali sono le differenze?
Le donne manifestano un’emotività più spiccata. portano molto le loro problematiche in studio tanto che, di solito, si instaura, con loro, una relazione più profonda, mentre gli uomini cercano delle soluzioni meccaniche. È raro trovare uomini che capiscano che il discorso da fare è più ampio rispetto al discorso sulle calorie. Gli uomini sembrano totalmente ignari riguardo al bilanciamento energetico, mentre le donne sono piu abituate a interessarsi di queste cose. Nell’uomo di mezza età, lo stress è spesso il motivo del sovrappeso e anche in loro si manifesta la modalità:l “mangio perché non ho più spazio per nient’altro”, che è diverso dal “non sono degno perché sono grasso”. Anche l’espressione “faccio schifo” e “non mi riconosco più nel mio corpo” sono tipicamente femminili, mentre l’uomo tende a non fare particolari commenti autogiudicanti. Raramente, per loro, è un disagio di tipo estetico, e portano come principale causa il poco tempo, e il fatto che amano mangiare in modo “robusto”, quasi come un elemento di ancestrale mascolinità. Al contrario, la donna tende a vergognarsi di mangiare, come fosse un’intollerabile manifestazione di lussuria e mancanza di controllo.
I giovani maschi sono molto tecnici e razionali, tendono, ad esempio, ad avere determinate convinzioni, dettate dall’ambiente che frequentano, come le palestre e tutti gli ambiti sportivi.
Molte donne hanno voglia di lavorare, insieme a me, per raggiungere un equilibrio salutare, attraverso anche l’uso delle arti: scrivono, leggono, osservano dipinti e disegnano più volentieri, mentre gli uomini tendenzialmente non si riescono ad arruolare nemmeno nella stesura del diario prettamente alimentare. Ovviamente qui bisogna tener conto del mio filtro, perché sono io che sono in rapporto con le persone e il percorso intrapreso dipende molto da quello che sento io. Se quello che percepisco è un muro di diffidenza o di scarso interesse ad andare più nel profondo, anche io rimango più in superficie; mentre, se vedo che c’è un bisogno profondo dietro, io cerco sempre di fare un lavoro con le arti affinché si arrivi a scandagliare tutte le emozioni in gioco.
[1]“Termine che indica la medicina vista come un’unità di scienze naturali e di scienze umane.,…, questa visione parte dal presupposto che la salute e la malattia hanno a che fare con la vita e con la morte e sono strettamente collegate alla natura fisica, sociale, psicologica e spirituale dell’essere umano.” Enciclopedia treccani