Da decenni si parla ormai di qualità di vita dei pazienti e delle famiglie e numerose sono le ricerche che indagano proprio questo aspetto al fine d’indirizzare la ricerca sperimentale e sensibilizzare le persone interessate, gli stakeholders, ai molteplici problemi che i malati devono affrontare. Meno frequentemente, purtroppo, ci si occupa della qualità della vita dei professionisti assistenziali che vi ruotano attorno. Questo è un tema interessante da indagare in quanto in Italia e nel mondo si osservano strutture spesso disorganizzate con un eccessivo carico di lavoro in molte realtà professionali e protocolli troppo spesso focalizzati all’efficienza e non all’efficacia, portare ad una riduzione della qualità della vita lavorativa. Fra le professioni d’aiuto più spesso sofferenti, vi sono numerose e differenti figure professionali non solo a livello sanitario. Ricerche mostrano che un numero crescente di avvocati, ad esempio, poiché lavorano a stretto contatto con le vittime di traumi psicologici, morali e fisici, hanno quattro volte più probabilità di soffrire di depressione rispetto al resto della popolazione e presentano un tasso più elevato di suicidio e di abuso di sostanze.
Tuttavia, l’ambito in cui risulta ancora prominente un eccessivo sbilanciamento in negativo della qualità della vita professionale resta ad oggi quello sanitario. È dimostrato che il malessere colpisca il settore a 360 gradi, diffondendosi non esclusivamente fra i medici, come alcuni potrebbero pensare, ma su tutte le figure coinvolte nell’equipe di cura. In un recente studio ad esempio, più del 25% del personale volontario e gli operatori in servizio nelle ambulanze soffrono di una serie di gravi sintomi, che dal punto di vista psicologico possono essere classificati come stress post-traumatico. Un’altra ricerca su questo tema attesta che questa medesima sindrome psicologica si evidenzia nel 34% degli infermieri intervistati (Beck 2011). Inoltre, anche tra i professionisti della salute mentale, uno studio statunitense dimostra che il 72% ha riferito di provare ansia, il 62% ha provato una maggiore diffidenza nei confronti del mondo che li circonda e il 42% ha riferito di sentirsi sempre più vulnerabili dopo aver curato le vittime dell’uragano Katrina che qualche anno fa ha colpito gli Stati Uniti d’America (Hooper 2010; Culver-McKinney-Paradise 2011).
La fatica della cura inoltre, non riguarda solo l’assistenza professionale, ma spesso coinvolge anche coloro che assistono un familiare malato in casa, come i familiari-caregiver, come attesta una ricerca condotta su coloro che forniscono cure domiciliari primarie a pazienti terminali: vi è infatti un alto rischio di sviluppare gli stessi sintomi di eccessiva fatica di cura, al pari dei professionisti sanitari.
La compassion fatigue (letteralmente “la fatica compassionevole”) è una condizione caratterizzata da una graduale diminuzione progressiva nel tempo del desiderio di prendersi cura, ovvero della compassione. I primi studi su questa condizione psichica hanno infatti definito la compassion fatigue come una vera e propria sindrome, comune tra quei professionisti che lavorano a stretto contatto con le vittime di disastri, traumi o malattie, come il settore sanitario, che insorge acuta e improvvisa, che può essere scatenata anche da una sola esperienza percepita come particolarmente critica dalla persona che ne è colpita. La compassion fatigue è stata inizialmente studiata nel campo della traumatologia, dove è stata chiamata anche “costo della cura” come se fosse “il prezzo emotivo da pagare” per coloro che si prendono cura degli altri. Nell’ambito della compassion fatigue possono essere inserite anche altre sindromi o status non correlati alla professione d’aiuto, quali la crisi familiare legata allo stupro e gli effetti di “prossimità” sulle partner femminili di veterani di guerra ampliamente studiati nei decenni passati (Day-Anderson 2011-09-08; Figley 1982-1983; McCan-Pearlman 1990-01-01; Remer-Elliot 1988; Erickson 1989; Verbosky-Ryan 1988). Fortunatamente, la fatica associata all’aiuto comporta non solo effetti negativi ma anche una pars costruens, situata agli antipodi lungo questo spettro del livello di soddisfazione lavorativa, chiamato compassion satisfaction. È curioso osservare come spesso i medesimi fattori di motivazione che possono produrre soddisfazione in un professionista sanitario (e non), in termini di impegno e successo o gratitudine da parte dei propri assistiti, possono improvvisamente tramutarsi nella fonte del malessere.
La fatica può manifestarsi in diverse forme, sentimenti e comportamenti, quali episodi di disperazione per le conseguenze sulla persona assistita, diminuzione delle sensazioni di piacere e della soddisfazione che un tempo si provava per la propria professione, stress e ansia costanti per l’accumulo di lavoro e dell’impegno che viene ora percepito insostenibile, insonnia o incubi e un atteggiamento negativo pervasivo che può portare a nervosismo, irritazione nei confronti delle persone che ci circondano, contribuendo a isolamento e chiusura emotiva. Il dato di incidenza di questa sindrome all’interno delle professioni sanitarie può spaziare dal 16% all’85% a seconda del settore specialistico ma anche del complesso e della realtà in cui si opera. In uno studio del 2009, che coinvolge infermieri di diversi reparti, circa l’85% degli infermieri del pronto soccorso mostra sintomi di compassion fatigue (Hooper 2010).
I segni di questa condizione possono inoltre sfociare in quello che viene definito Stress traumatico secondario (STS) o trauma vicario. Il nome deriva dal fatto che si tratta di ferite emotive derivanti dalla sola conoscenza di eventi traumatici esperiti da altri, per interposta persona. Questa condizione di forte carico emotivo e impegno percepito nella cura nascono in questo caso da un trauma subito da un‘altro individuo, in seguito al tentativo di supportarlo. Lo STS si manifesta spesso con pensieri intrusivi e perdita del senso di prospettiva su pericoli e benefici, sbilanciando il focus percepito verso i pericoli. Ciò comporta la tendenza ad evitare qualsiasi situazione che possa ricordare o mettere nella condizione di ripercorrere con la mente quell’evento traumatico, poiché troppo doloroso da sopportare a livello psicologico. Infine, per chi soffre di questa forma di trauma, il peso emotivo dell’assistenza risulta particolarmente insostenibile per la persona con STS, sul punto di crollare. Del trauma difficilmente si riesce a parlare, e le sfide della medicina e sanità narrativa è proprio quella di svelare la parte profonda attraverso il processo catartico delle parole.
Il burnout è un’ulteriore forma di compassion fatigue (Beck 2011; Ricard 2015), tra le più gravi e drastiche conseguenze della scarsa qualità di vita professionale nelle professioni d’aiuto, e comporta una totale perdita d’interesse nei confronti delle persone a cui il professionista dovrebbe rivolgere le proprie attenzioni e cure. In particolare, è dimostrato che la persona in questo stato prova costantemente un esaurimento emotivo, tende a mettere in atto una depersonalizzazione della persona da curare, sperimentando una ridotta realizzazione personale, frustrazione e mancanza di gratificazione. Maslach, Schaufeli e Leiter (2001) sottolineano infatti che la componente dell’esaurimento emotivo emerge come fattore di svolta nella comparsa di burn out, derivando da un conflitto interiore tra la richiesta di inibire le proprie emozioni di rabbia, frustrazione e stanchezza in ambito lavorativo e quella di mostrare empatia in relazione al fatto di rivestire un ruolo di aiuto. A differenza della compassion fatigue, il burnout è più spesso legato a cattiva gestione e disorganizzazione reiterata nel tempo delle strutture e degli enti presso il quale si presta servizio, piuttosto che all’esposizione a specifici problemi dei pazienti come i traumi. Risulta particolarmente interessante sottolineare quindi che spesso l’eccessiva burocrazia e la carenza di personale sanitario, si ripercuota non solo sul professionista ma anche sulla qualità di relazione e di cura con il paziente, compromettendo di conseguenza l’intero sistema assistenziale. Inoltre, questa differenza con la fatica compassionevole comporta anche che il burnout possa colpire professionisti di qualsiasi ambito professionale, dove la ripetizione è ossessiva, ed ha anche a che fare con l’alienazione del tipo di lavoro, mentre la compassion fatigue è particolarmente caratterizzante delle professioni d’aiuto, che operano a stretto contatto con persone che hanno vissuto eventi traumatici. Un’ulteriore fattore discriminante fra i due status, seppur sovrapponibili sotto molti punti di vista, è rappresentato dalla modalità d’insorgenza dei segni evidenti di sofferenza: la compassion fatigue è un sentimento che scaturisce immediato e acuto, mentre il burnout è un processo più progressivo e graduale.
Pertanto, risulta chiaro ed evidente che lo status di burn out sia da considerarsi un problema da prevenire, controllare ed eliminare, poiché mina non solo il professionista che ne viene colpito, ma l’intero sistema professionale globale, minando le relazioni professionali, la vita privata e pubblica di molti lavoratori. A tal scopo, in letteratura sono presenti alcuni interessanti strumenti per implementare la consapevolezza fra le professioni d’aiuto sul proprio status di soddisfazione lavorativa, ma anche sul livello percepito di fatica nel prestare le proprie cure. Come si evince dalla figura ad albero, esiste un precario equilibrio fra la soddisfazione professionale nella cura del prossimo e la fatica compassionevole: maggiore è la sensazione di gratificazione, maggiore è la fatica che abbiamo dovuto compiere per ottenerla. Uno sbilanciamento in negativo della qualità di vita professionale può tuttavia influire sul rischio di STS e burn out.
Uno di questi strumenti: il Professional Quality of Life Scale (PROQOL) è un test autosomministrato ideato da Figley, uno dei massimi esponenti nella ricerca sulla compassion fatigue, che ha lo scopo di stimare il rischio di un eccessivo coinvolgimento nella relazione con il paziente e allo stesso tempo la percezione della propria soddisfazione. Il test è composto di items che analizzano la condizione personale, l’identificazione con il proprio lavoro, il rapporto con l’ambiente di lavoro e con i colleghi, e fornisce un punteggio che misura il livello di soddisfazione della professione d’aiuto, il rischio generale di burnout e la possibilità di sviluppare la compassion fatigue con le conseguenti sintomatologie precedentemente descritte. Un ulteriore metodo che si è dimostrato particolarmente utile come autodiagnosi di sofferenza emotiva sul posto di lavoro è la narrazione. Da decenni la scrittura riflessiva è diffusamente riconosciuta e applicata nell’ambito della depressione, delle sindromi ansiogene, fobie, e altre malattie mentali. Gli scritti dei pazienti sono analizzabili dal curante in modo da evidenziare e far emergere la sofferenza e i segni di malattia, ma il medico stesso può capire che qualcosa non va nella propria vita privata e professionale attraverso la narrazione (John Launer, 1999; Maria Giulia Marini 2015). Numerosi sono i progetti ISTUD che hanno volto l’attenzione ai professionisti di cura, dove emerge una diffusa difficoltà di comunicazione e di formazione alla comunicazione nell’ambito delle malattie terminali (ANALISI DEL CLIMA DI LAVORO NEI CENTRI DI CURE PALLIATIVE – 2006; V.E.D.U.T.A. – 2012), progetti in grado di dar voce ai problemi più comuni nella gestione di patologie complesse come la BPCO e l’asma grave (Le parole del Respiro 2015; Le parole del Respiro 2016; SOUND 2017). Più di recente, l’Area Sanità e Salute di Fondazione ISTUD stà portando avanti un vero e proprio lavoro di ascolto dei neurologi coinvlti nella cura della Sclerosi Multipla, al fine di valutarne il reale rischio di burn out (SMART – 2018).
Dunque, cosa fare per prevenire e gestire il rischio di eccessiva compassion fatigue, STS e burn out? Innanzitutto, prendersi cura di sé: riconoscere i rischi e cercare sostegno per prevenire ed eventualmente affrontare i problemi, causa di fatica e sofferenza. Forse, basterebbe (e non è così semplice…) imparare a tenere separate emotivamente le angosce del paziente e la propria soddisfazione professionale, capire quali sono i propri limiti di sopportazione dello stress, accrescendo le informazioni sulla propria vulnerabilità. Certamente, un ambiente di lavoro sereno e adeguato sarebbe d’aiuto al professionista, ma spesso le realtà sono tanto complesse che cambiarle può sembrare fuori dalla nostra portata; inoltre, molto spesso alti livelli di stress e burn out possono portare ad evitamento, ovvero all’incapacità di chiedere aiuto e di riporre fiducia nel prossimo. Tuttavia, la supervisione, il lavoro di gruppo, la relazione con le altre figure dello staff, dell’equipe medica e del personale possono contribuire a bypassare tale problematica (Dyregrov et al 1996, Lyon 1993). Dalla letteratura, molti studi citano alcuni piccoli accorgimenti che possono ulteriormente contribuire alla riduzione del rischio: distribuire temporalmente in modo più personalizzato, se possibile, i colloqui con i pazienti traumatizzati in modo da concedere comunque loro la totale attenzione, e garantirsi un tempo e uno spazio per metabolizzare e riprendersi emotivamente (Trippany et al 2003); saper bilanciare lavoro, svago e riposo, dedicarsi ai propri hobby, mantenere viva la propria rete personale amicale e familiare, e implementare dunque le proprie strategie di coping contro lo stress (Trippany et al 2003; John Launer 1999). Ancora una volta, la Medicina Narrativa può intervenire a supporto del professionista, attraverso l’utilizzo nella pratica clinica della cartella parallela. Inoltre, sarebbe utile che le Istituzioni garantissero la possibilità per i professionisti di usufruire di un servizio di psicoterapeuta, così come già predisposto per i pazienti.
Silvia Napolitano, researcher at ISTUD Foundation
Matteo Nunner, collaborator at ISTUD Foundation