Stefania Mattioli è responsabile UOS Comunicazione presso l’ASST di Cremona e e ha partecipato al Master in Medicina Narrativa Applicata di Fondazione ISTUD di qualche anno fa.
Come è maturata e con quali aspettative la decisione di formarti alle medical humanities e alla medicina narrativa?
Il desiderio nasce dalla passione e dalla curiosità verso l’umanità e l’umanesimo: chi (come me) si occupa di comunicazione in un luogo di cura, ha sempre a che fare con la vita delle persone. Da questo non si può prescindere. In modo istintivo, ho sempre inteso la relazione, l’attenzione alle parole, come parte integrante della Cura. Sono convinta che dentro l’organizzazione i ruoli sanitari e non sanitari siano complementari. Chi lavora in ospedale, centralinisti compresi, incontra la sofferenza di interlocutori potenzialmente vulnerabili, sempre. Bisogna prestare attenzione al sentire dei pazienti, dei loro familiari, in ogni momento. Non solo. Per me è fondamentale intercettare anche il sentimenti di medici, infermieri, oss, ecc. È dall’incontro e dall’analisi delle diverse percezioni che si può capire cosa funziona e cosa no. In tal senso, la comunicazione e le relazioni con il pubblico giocano un ruolo importante.
Di certo la mia formazione umanistica (lettere e filosofia) è stata determinante nell’approccio al lavoro, è l’origine dell’interesse per le medical humanities. La medicina narrativa è stato un incontro folgorante, scoperta in modo sotteso, attraverso i racconti di Oliver Sacks, di Sandro Spinsanti; la lettura di Appunti di un giovane medico di Bulgakov, La morte di ivanil’ic di Tolstoj e moltissimi altri testi illuminati. Poi è arrivato il Master di Istud, trovato navigando in rete. Sin dalla prima lezione mi sono sentita a casa, mi ha colpito la concordanza di linguaggi e intenti fra docenti e partecipanti, la profondità e la bellezza degli interventi proposti. Insomma, ho imparato molto. L’aspettativa esaudita era quella di conoscere esperienze strutturate e acquisire un metodo per dare corpo alle idee e ai pensieri disordinati che affollavano la mia mente.
Cosa rappresentano oggi le humanities e la medicina narrativa nel tuo lavoro di responsabile dell’Ufficio Comunicazione e URP?
Un tesoro a cui attingere in ogni momento e una bombola di ossigeno da respirare a pieni polmoni davanti alle difficoltà. Sono diventate una sorta di forma mentis, anche se il lavoro è in progress.
Al di là dei progetti strutturati – due esempi per tutti: Il Parkinson non è un cappello (2018), Ictus con le mie parole (2019) – ogni segnalazione, reclamo, conversazione telefonica viene vissuta come un racconto (mai come un fastidio o un’espressione di giudizio). Cerco di evidenziare e tenere a mente le parole chiave, quelle che in gergo potrei classificare e accorpare (nodi). Mi aiuta ad arrivare all’essenza, facilita la comprensione e la ricerca dell’autenticità dei fatti. Così facendo, spesso, arriva la soluzione del problema. Declinare l’approccio narrativo anche nelle attività di comunicazione (eventi, open day, relazioni con i media) significa provare a far coincidere i bisogni organizzativi e le aspettative di cittadini, pazienti, giornalisti (ecc), ma anche alimentare la creatività. Nel mio lavoro, inoltre, tutte le arti (pittura, fotografia, letteratura, cinema, ecc) sono strumenti essenziali per facilitare l’incontro con l’altro e la costruzione di “relazioni terapeutiche” e formative.
L’Ospedale di Cremona, come molte altri in Lombardia, è stato particolarmente in prima linea durante l’emergenza sanitaria. Che ruolo hanno avuto le humanities e la medicina narrativa in questo tempo?
Direi essenziale. Un esempio per tutti è stata l’attivazione dell’URP-on line, attraverso la chat di Facebook. Nei mesi più duri dell’emergenza, ci siamo resi conto subito che la paura, l’impossibilità di frequentare i servizi e assistere i propri cari non potevano essere lasciate in sospeso. Paradossalmente i social sono diventati un ufficio (molto umano) aperto quasi 24 ore, per passione desiderio di essere utili. Io e la mia collega (Maria Grazia Tozzi) abbiamo iniziato a dialogare in rete con le persone: chi a casa solo in quarantena, chi malato senza riferimenti, familiari in ansia, persone straziate dal lutto con il desiderio di recuperare effetti personali e ultimi ricordi del proprio caro. Moltissime richieste di informazioni, bambini che ci mandavano disegni, messaggi da recapitare ai ricoverati. E una montagna di parole riconoscenti per il lavoro che i sanitari stavano svolgendo. Abbiamo sperimentato un modello di PA davvero smart e narrativo che stiamo cercando di alimentare e strutturare. Per questo la collaborazione con tutte le altre figure, in particolare con i coordinatori infermieristici, è stata determinante.
Senza medicina narrativa, tutto questo, non sarebbe accaduto con la stessa intensità e con gli stessi risultati (rispetto al 2019, l’incremento delle richieste via chat è stato del 100%). L’approccio è stato quello di ascoltare, riformulare, comprendere il significato di ogni domanda e parola che ci venivano poste, anche dei silenzi; cercare denominatori comuni fra le istanze e le situazioni intercettate, per individuare le azioni da compiere in un contesto così difficile.
La medicina narrativa (filosofia e approccio) è stata utilissima anche nella gestione delle relazioni con la stampa, per costruire il racconto insieme ai giornalisti. Intendo dire che ci ha fornito gli strumenti per rispettare il diritto di cronaca senza superare il limite, ci ha permesso di stare sui fatti senza invadere e violare la dignità dei corpi malati e strumentalizzare la fatica e la sofferenza di tutti.
Qual è il tuo prossimo progetto inerente alla medicina narrativa?
L’intenzione è quella di sviluppare un laboratorio con gli operatori di pronto soccorso, oggi più che mai un luogo di frontiera. Dopo quasi due anni di grande fatica e logorio (anche emotivo), è emersa la necessità di lavorare sul paziente/persona e non corpo/cosa, soprattutto per i codici minori e i grandi anziani. Uno dei problemi rilevati è che l’assenza della mediazione del famigliare (a causa del Covid-19) complica le cose, questo vale per tutti i reparti, ma è prevalente in pronto soccorso. Le attese non spiegate, la mancanza di parole che accompagnano la permanenza in osservazione, la paura che accada qualcosa di grave e di non capire cosa, acuiscono il senso di ansia, la percezione di scarsa attenzione, superficialità diagnostica e incompetenza. Anche quando, dal punto di vista clinico il percorso è ineccepibile e i sanitari hanno compiuto le scelte ottimali per la salute del paziente. Sarà uno degli impegni del prossimo autunno.