«Una gabbia di ferro che ti stringe il torace e ti impedisce di respirare; Soffocare nella nebbia, non vivere, annegare nell’acqua; Uscire di casa per me è un sogno…». Ma anche quelle utilizzate dai familiari: «Uno stanzino chiuso, piccolo e buio…ho visto mia mamma arrancare…claustrofobia totale…; Un passerotto che non può volare e che sbatte le ali ma non riesce». Queste le metafore utilizzate da pazienti e familiari più rappresentative ed evocative che sono state selezionate ed esposte durante il percorso del progetto FARO.
Il progetto FARO – Far luce attraverso i racconti di BPCO è stato condotto da Fondazione ISTUD per Chiesi Farmaceutici. Una ricerca di medicina narrativa volta a dar voce a pazienti, familiari e medici coinvolti nell’esperienza della Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva. Il progetto FARO ha così raccolto in tutta Italia ben 350 testimonianze, mettendo in luce diversi aspetti: la scarsa conoscenza della malattia legata anche alla difficoltà nel comprendere un nome comunicativamente poco efficace.; tra le cause della malattia la forte correlazione col fumo confermata anche dalle metafore utilizzate dai pazienti; l’impatto considerevole sull’attività lavorativa generato dalla BPCO, i problemi di aderenza terapeutica. L’11 ottobre l’intera ricerca e i suoi risultati sono stati presentati durante la conferenza stampa intitolata: “Soffocare nella nebbia”, la Broncopneumopatia Cronica Ostruttiva, una malattia quasi sconosciuta ma tra le prime cause di morte nel mondo.
I dati emersi dalla ricerca, presentati da, Maria Giulia Marini, Direttore dell’area Sanità e Salute di Fondazione ISTUD, hanno permesso di comprendere come questa patologia, seppur poco conosciuta sia a livello pubblico che dal paziente stesso, abbia invece delle importanti ricadute sulla quotidianità sia della persona con BPCO sia del suo familiare: «Quando si parla di malattia e mondo del lavoro, vediamo che nel 49% dei casi la malattia ha inciso sull’attività lavorativa e nel 20% ha addirittura determinato il ritiro dal lavoro. Anche i familiari hanno conseguenze nella loro quotidianità infatti nel 70% dei casi i pazienti sono assistiti da familiari e il 16% di questi per più di 8 ore al giorno. Per quanto concerne invece il fumo, il 60% degli intervistati ha smesso di fumare dopo la diagnosi e il 20% di chi è affetto da BPCO non è riconducibile a fattori legati alle sigarette. Infine il termine BPCO è estremamente complesso e scarsamente comunicativo, sulla sua inefficacia concorda ad esempio l’89% dei professionisti sanitari».
La ricerca oggigiorno è divenuta uno strumento sempre più presente e importante. Marco Zibellini, Direttore Medico di Chesi, ha spiegato il perché più del 20% degli investimenti dell’azienda siano indirizzati in questo settore: «Ѐ fondamentale conoscere come la persona vive la malattia, come influenzi la sua vita. La ricerca va sempre indirizzata, anche per poter sviluppare al meglio nuovi prodotti». BPCO, una sigla, una terminologia strettamente tecnica riferita ad una patologia davvero poco “popolare” e facilmente comprensibile. Stefano Centanni, pneumologo all’ospedale San Paolo e San Carlo di Milano, ha riportato gli impressionanti dati che mostrano quanto questa malattia sia poco conosciuta: «Secondo recenti stime solo l’11% dei soggetti sa di cosa si tratti, nonostante la mortalità legata alla patologia sia estremamente elevata. In realtà più di 3,5 milioni d’italiani ne soffrono, ma molti non ne sono a conoscenza perché i sintomi sono spesso sottovalutati sino all’ultimo».
Il paziente dal fiato corto, il medico di medicina generale e l’aderenza. Queste sono state le tematiche illustrate e il titolo assegno all’intervento portato da Saffi Giustini, medico di medicina generale al presidio distrettuale di Montale (PT): «Non si tratta di una malattia per soli anziani, ma riguardante anche giovani adulti. Un paziente magari inizia a fumare a 15-16 anni per poi ritrovarsi a 30-35 con una diagnosi shock di BPCO». Le cause della scarsa aderenza terapeutica sono molteplici: dall’incapacità del paziente di auto-gestirsi al bias di comunicazione medico-paziente, dal timore dell’assistito nei confronti degli effetti collaterali potenziali o inevitabili sino alla propria non-percezione di “malato”, specie in caso di patologie silenti.
Bisogna quindi ricordare la gravità di questa patologia e l’importanza di dar più voce a questa “malattia fantasma” e quanto sia fondamentale far emergere un nuovo discorso di consapevolezza, di prevenzione, di speranza, come ha ben esposto Salvatore D’Antonio, presidente dell’Associazione Italiana Pazienti BPCO Onlus. Infine Paolo Banfi, pneumologo della Fondazione Don Gnocchi, ha elogiato lo strumento della medicina narrativa applicato in questa ricerca. C’è, come ha esposto Banfi, un problema di comunicazione alla base, criticità dovute alla difficoltà nel creare empatia, al dialogo coi pazienti, al tempo dedicato agli altri: «Il malato di BPCO è un paziente fragile, da prendere in cura a 360°».
L’intero progetto è stato sostenuto dalle principali società scientifiche del campo della pneumologia (SIP, AIPO), della medicina di base (SIMG, FIMMG) e dalle associazioni di cittadini e pazienti (Onlus BPCO, Federasma e allergie). La ricerca è stata portata avanti dai membri dell’area Sanità&Salute di Fondazione ISTUD, tra i quali Maria Giulia Marini, Valeria Gatti e Luigi Reale.