Buona parte del linguaggio usato per scrivere e parlare del cancro è ancora legato alla metafora militaresca della guerra: “La flebo comincia a gocciolare, è il segnale che la battaglia è iniziata” [1], “Quando si va in guerra contro il cancro è meglio affidarsi a comandanti-medici” [2].
È una prassi comune, portata avanti nella comunicazione da diversi istituti clinici italiani sia per le campagne di sensibilizzazione per la popolazione, sia nel dialogo individuale tra il medico oncologo e il paziente. Questo linguaggio, però, finisce inevitabilmente per etichettare, stigmatizzare, e spaventare le persone che vivono con questa malattia: è possibile utilizzare un altro linguaggio per definire il cancro, un linguaggio che offra una prospettiva meno “invasiva” e militaresca?
Il Cancer Institute del New South Wales (Australia) ha proposto alcune linee-guida per realizzare una comunicazione sensibile e raffinata riguardo al cancro, sia a livello mediatico (quindi nel mondo della sickness, ossia la percezione sociale della malattia), sia a livello intimo col paziente (la illness, il vissuto con la malattia). Questo avviene attraverso un linguaggio diverso dalle “consuete metafore di guerra” e che si spera possa essere di sollievo alle persone che vivono con il cancro.
La parola “cancro” si riferisce a una classe di malattie caratterizzate da una divisione incontrollabile di cellule anomale. Ciascuna di queste malattie, però, è unica in termini di cause, sintomi, incidenza, mortalità e trattamento: alcuni tumori possono prendere la forma di malattie croniche, per cui le persone vengono trattate di conseguenza, mentre altri tumori continuano ad avere un alto tasso di mortalità.
I clinici e i ricercatori del Cancer Institute sono partiti proprio dall’assunto che il cancro è un’esperienza personale: le diagnosi sono differenti, così come le scelte terapeutiche, e ogni storia di malattia è unica. Molte persone col cancro riescono a vivere una vita piena, anche con discontinuità di trattamenti. Al termine “cancer patient” (il paziente col cancro) è preferibile quello di “persona con il cancro”: non solo per il rispetto dell’unicità della sua storia e della sua situazione attuale, ma anche per permettere alla persona di narrarsi al di fuori del linguaggio clinico o militaresco. Se è vero che la maggior parte delle storie personali riportate si riferisce alla lotta con il cancro, è anche vero che il cancro non può essere solo una situazione di sconfitta o vittoria. È quasi immorale giudicare il progredire della malattia come una questione di perdita, insuccesso, non-merito.
Nelle linee-guida lanciate dal Cancer Institute è illustrato come dialogare di una diagnosi di cancro, dell’esperienza del cancro, o di una persona che è morta a causa del cancro. Le linee-guida, sviluppate durante le consultazioni con persone con il cancro, le loro famiglie, e i clinici, offrono l’opportunità di innovare le tecniche di comunicazione sia nelle campagne di screening e di informazione, a livello della percezione della patologia nella società, ma anche attraverso il riconoscimento della personalizzazione delle cure nella relazione terapeutica tra curante e curato.
[1] Corrado Sannucci, “A parte il cancro tutto bene. Io e la mia famiglia contro il cancro”, 2008.
Beh, che cos’è se non una battaglia che spesso diventa una guerra lunga ed estenuante? Io mi sono salvata ripetendomi fino allo sfinimento : ” Io sono più forte di tutto questo! ” e tutto questo era il nemico da battere: il cancro. Il buonismo non porta da nessuna parte, il progredire della malattia è una perdita, un insuccesso che solo la forza del malato e la bravura dell’oncologo possono arginare. La speranza non muore, ma non si accende chiamando il dolore con un altro nome