Giovanna Borriello è neurologa e ricercatrice presso l’Università di Roma La Sapienza ed è Responsabile Ambulatorio SMART dedicato alla Sclerosi Multipla Presso NCL-Istituto di Neuroscienze gruppo Neuromed
Provare a raccontare la NMO significa provare a spiegare cosa sia un buco nero, o meglio la sensazione di essere risucchiati nel buio della cecità e della paralisi, disabilità che generano terrore nelle persone colpite da questa malattia e forte disagio nei medici che devono gestirne complicanze ed evoluzione.
È considerata una malattia rara, e spesso la diagnosi si ottiene con difficoltà, non sono infrequenti infatti errori diagnostici rispetto alle forme di Sclerosi Multipla che esordiscono con mielite o disturbi del visus. Incorrere in un errore di diagnosi significa non solo perdere tempo prezioso rispetto alla possibilità di evitare una disabilità permanente, ma sottintende anche il rischio di intraprendere terapie inadeguate che possono causare addirittura aggravio della patologia.
I primi pazienti che ricordo di aver seguito purtroppo venivano in gran parte da queste situazioni, ovvero errori di diagnosi data la scarsa conoscenza della patologia (mi riferisco ad episodi risalenti a circa 20 anni fa…). Ricordo condizioni cliniche gravissime, disabilità evidenti e una scarsissima speranza di poter limitare i danni neurologici. La carrozzina era lo spettro dei pazienti ma purtroppo anche di noi medici, eravamo abituati a preparare malati e familiari al peggio, al buio della cecità e alla perdita di autonomia. La prognosi era grave per tutti, nessuno escluso, le armi per combattere assai scarse e poco specifiche. Ricordo una signora sui 50 anni che mi disse: “Di notte sogno di correre e poi al mattino mi trovo bloccata al letto e piango piango piango finchè non mi si sciolgono anche i muscoli”. A distanza di tanti anni e grazie all’ampiamento delle nostre conoscenze affrontare la diagnosi di neuromielite ottica comporta un carico emotivo ed esperenziale diverso, siamo autorizzati ad usare parole di speranza e possiamo parlare di “alternative” in caso di insuccesso, cosa non immaginabile fino a pochi anni fa. Eppure non si deve dare per scontato che questa realtà, rasserenante e soddisfacente per noi medici, sia necessariamente la percezione del malato. Poche ore fa, nel proporre un monoclonale a Sabina, una giovane donna incapace ormai di deambulare, accompagnata in ambulatorio dalla figlia quindicenne, alla fine di una dettagliata spiegazione riguardo ai mirabolanti benefici di questa nuova terapia, un farmaco di efficacia ad oggi insuperata, alla mia richiesta se avesse dubbi o domande (temevo soprattutto riguardo le modalità di somministrazione, oggettivamente impegnative), mi ha chiesto solo una cosa: “ma fa perdere i capelli?”. La figlia ha sorriso con dolcezza e ha aggiunto: “Eh si lei si preoccupa sempre che queste terapie facciano cadere i capelli!”, come a giustificare la scarsa focalizzazione su aspetti a suo giudizio ( e immaginava a mio giudizio) sicuramente meno futili. Convivere con una malattia grave non significa sempre avere interesse solo per i problemi gravi, evidentemente per Sabina la perdita dei capelli e quindi di una manifestazione della sua femminilità è preoccupazione che supera quella per qualsivoglia impiccio logistico.
Quando chiedi ad un neurologo quale disabilità tra quelle potenzialmente indotte da una malattia demielinizzante potrebbe impattare maggiormente sulla sua vita, la maggior parte conclude che sicuramente perdere la vista avrebbe un significato traumatico maggiore. Questo fa comprendere quanto possa essere difficile anche per noi approcciare questa patologia, quanto sia importante evitare le manifestazioni e le recidive di neurite ottica e quale impegno rivolgiamo alla ricerca di nuove strategie terapeutiche. A questo proposito, mi fa piacere rendere noto che recentemente è stata estesa la possibilità di trattare in protocolli sperimentali anche le forme ad esordio pediatrico, ancor più rare di quelle dell’adulto ma non meno devastanti, basti pensare alle parole di una mamma di una ragazzina di 12 anni che seguo nel protocollo:”Se deve diventare un vegetale in carrozzina me lo dica subito così io e il padre ci regoliamo, che abbiamo già sofferto tanto per la mia malattia”. La mamma in questione soffre di artrite reumatoide ed è convinta, nonostante le mie ripetute smentite, che la figlia è malata per colpa sua perchè “ha ereditato i geni malati”. È molto difficile contestare una madre disperata, e comunque non è quello il mio attuale obiettivo, per ora affrontiamo questa nuova sfida e il tempo ci darà ragione.