La malattia
L’emofilia è una malattia emorragica congenita rara che colpisce prevalentemente maschi, mentre le femmine sono portatrici. Infatti, l’emofilia è una patologia ereditaria che deriva da mutazioni, delezioni o inversioni a carico dei geni che codificano per il fattore VIII nell’emofilia A o per il fattore IX nell’emofilia B. Poiché questi geni sono localizzati sul cromosoma X, l’emofilia colpisce quasi esclusivamente i maschi (che hanno solo un cromosoma X). Le bambine con genitore maschio affetto da emofilia sono portatrici obbligate in quanto ne ereditano il Cr. X aggetto, mentre i figli maschi sono normali. Ciascun figlio maschio di una portatrice ha una probabilità del 50% di ereditare il Cr. X affetto e avere l’emofilia e ciascuna figlia femmina ha una probabilità del 50% di essere portatrice.
I pazienti sono esposti a gravi emorragie spontanee e traumatiche, prevalentemente ad articolazioni e muscoli, con conseguente artropatia invalidante, ma non infrequenti sono anche le emorragie intracraniche e del tratto gastro-enterico. Gravissime sono i sanguinamento post-chirurgici o dopo semplici estrazioni dentarie.
L’attuale “gold-standard” di trattamento è la profilassi per via endovenosa con concentrati del fattore mancante 2-3 volte alla settimana, o con l’iniezione sottocutanea settimanale di cosiddetti non-fattori”. La profilassi può ridurre la frequenza degli episodi di emartrosi e quindi l’artropatia emofilica e la necessità di interventi correttivi alle articolazioni, e la frequenza delle emorragie cerebrali, muscolari e in altri organi e sistemi, e ridurre così la necessità di ricoveri.
Le madri sono portatrici, spesso senza saperlo, e su loro pesa, comunque, il carico di prendersi cura di questi piccoli pazienti. La Medicina non si è mai veramente occupata di loro, delle loro emozioni, dei loro problemi, dei loro bisogni.
La Metodologia
Con un approccio di Ricerca Narrativa si sono analizzate le narrazioni di 13 mamme di figli con l‘emofilia, raccolte da Gianna Bellandi, counselor e mediatrice famigliare, e la Dr.ssa Samantha Pasca in collaborazione con l’Azienda Ospedale e Università di Padova, nel libro “Emofilia, sostantivo femminile”, pubblicato da Universo Rosa nel 2023.
Queste mamme erano state sollecitate a raccontare di sé seguendo una traccia generale, volta a conoscere l’impatto della diagnosi, l’impatto sulla famiglia e la ricerca di nuovi equilibri e l’impatto nei primi rapporti sociali dei figli, nella scuola. Le narrazioni sono state raccolte attraverso colloqui individuali, registrati, trascritti, poi restituiti per essere confermati o essere modificati.
I Risultati
L’analisi delle loro narrazioni ha messo in evidenza come la diagnosi, spesso del tutto inaspettata, abbia rappresenta un punto di svolta, “un confine”, “una doccia fredda”, “uno schiaffo in pieno viso, anzi, una mattonata in faccia”, come certo ci si poteva immaginare, con pesante impatto emozionale (“L’unica cosa che ricordo di quel giorno è che ho pianto tutta la sera”, “Ho spento il cellulare e ho versato tutte le lacrime della mia vita”). Da questo impatto però volevano e dovevano provare a reagire (“Affrontiamo un passo alla volta”), a rialzarsi (“Mi sono sentita come se dovessi scalare una montagna ancora più alta”). C’era la necessità di adattarsi velocemente alla nuova realtà, senza cedere alle ovvie difficoltà (“Se penso al nostro percorso lo vedo come una escalation di momenti difficili” e “mi sono dovuta arrangiare e barcamenarmi fra lavoro e tutti gli impegni legati a questa patologia”). Il metter in atto le strategie di coping, orientate spesso verso un coping attivo e di problem-solving, ma anche di controllo delle emozioni, veniva ostacolato dal senso di colpa (“da mamma portatrice dovrei sentirmi in colpa”), l’ansia costante (“una spada di Damocle” oppure “l’emofilia purtroppo è come una suocera dalla presenza costante”), ma anche l’isolamento e il bisogno di supporto, anche solo di comprensione, da parte di amici e famigliari (“E’ stato tutto molto difficile prima sono stata accusata di inventarmi la malattia, poi del piangermi addosso”). In soccorso di queste mamme c’erano talvolta (non sempre) gli operatori sanitari, qualora competenti e presenti, e soprattutto l’associazione di pazienti o i genitori di altri piccoli pazienti (“Frequentando l’Associazione, vedendo quei ragazzi, si aprivano spiragli di speranza, più incontri facevamo più iniziavamo a vedere un po’ di luce”). Tutti gli sforzi erano orientati a garantire loro una vita la più normale possibile (“non ho fatto rinunciare a nessuno dei due esperienze di socializzazione: gite scolastiche, attività con gli altri bambini”), per quanto fosse loro consentito dalla malattia, ma anche da parenti e insegnanti impauriti (“Non c’è stata nessuna attenzione, nessuna attività, nessun progetto che potesse prevedere delle attività di gruppo organizzate sulle necessità di mio figlio”, e “Tra i tanti scogli che ho incontrato c’è stato il periodo scolastico, gli insegnanti hanno fatto pesare a mio figlio la sua condizione”, e ancora “certe patologie fanno paura, e la paura tende a lasciare soli ad allontanare”).
Dalla paura, dal vero e proprio terrore (“Abbiamo vissuto attimi di terrore”; “Non vedevo un futuro per il mio piccolo”), che talvolta si trasformava in rabbia (“Non ne potevo più, mi sono veramente tanto arrabbiata” e “sono sempre stata sola, non ho avuto aiuti, da parte di mio marito c’è sempre stata la paura delle conseguenze che la malattia porta, mi sono dovuta arrangiare da sola”), hanno allora cominciato ad emergere sentimenti di aspettativa (“andare avanti aggiungendo anche il sorriso perché ci sono i momenti di sconforto, ma poi ritorna il sorriso “), fino addirittura in una fiducia nel futuro: “Non è una passeggiata ma, pian piano, adattandosi all’imprevedibilità, le cose sono andate meglio” e ancora “L’emofilia è entrata in famiglia senza stazionare pesantemente”.
Interessante notare che nessuna delle narrazioni era “regressiva” (secondo la classificazione di John Launer), anche se quasi un terzo erano caratterizzate dal “caos” (secondo la classificazione di Frank).
Le Conclusioni
Le emozioni, i bisogni e le aspettative delle madri di bambini affetti da emofilia, madri che non sono affette dalla malattia, ma che “solo” sono portatrici del difetto genetico, non sono mai state al centro dell’attenzione degli operatori sanitari. Eppure, la comprensione di questi stati emozionali e dei bisogni di queste mamme è centrale affinché i bambini stessi possano ricevere la giusta assistenza sanitaria, il corretto supporto famigliare e un adeguato inserimento nella vita sociale. La Medicina basata sulle Narrazioni, insieme con il suo accurato approccio metodologico, è in grado di dar voce a questi bisogni, aiutando inoltre a stabilire anche un migliore, più empatico, rapporto medico-paziente.
Da tutto queste narrazioni si possono trarre delle utili indicazioni: prima di tutto, far superare alle mamme di bambini emofilici l’iniziale paura che rischierebbe di essere paralizzante, assicurando da parte degli operatori sanitari che siano fornite tutte le informazioni sulla patologia e le terapie correnti e future; mettere al più presto queste mamme in contatto con le associazioni di pazienti, in modo che possono avere anche informazioni anche da un’altra prospettiva; sollecitare incontri con gli insegnanti di scuola materna e primaria, e degli asili nido di informazione ad opera degli operatori sanitari stessi; rompere l’isolamento con la preparazione di materiale informativo da fornire a parenti e amici, fruibili anche dagli amichetti dei piccoli; promuovere la Medicina Narrativa nei Centri Emofilia per far emergere i bisogni individuali di queste famiglie, attraverso narrazioni scritte e attraverso Conversazioni Cliniche Efficaci.
Queste semplici attività avrebbero probabilmente il risultato di alleviare il carico emozionale delle mamme e consentire loro di prendersi cura più serenamente dei loro figli, di alleggerire il carico di lavoro degli operatori sanitari stessi, favorendo in ultima analisi una migliore cura di questi pazienti.
Alessandro Gringeri – Physician, hematologist, clinical and medical affairs lead