Nicolò Saverio Centemero lavora in Direzione Generale dell’Ente Ospedaliero Cantonale dove si occupa di medicina informatica. È inoltre attivo in ambito culturale dove la sua passione per le Medical Humanities – in particolare letteratura e fotografia – lo porta a collaborare con varie istituzioni, riviste e case editrici. Dal 2021 è tra gli organizzatori del festival letterario ChiassoLetteraria. Nel 2022, dopo alcuni anni di collaborazione, è entrato ufficialmente a far parte della Fondazione Sasso Corbaro con il ruolo di collaboratore scientifico.
Come ha scoperto la medicina narrativa?
Che bella domanda! Ed è bella perché mi stimola a pensare al momento in cui è nato un interesse che, ad oggi, è parte importante della mia vita – non solo lavorativa.
Se mi guardo alle spalle, dopo aver concluso gli studi classici al liceo e aver intrapreso l’università di medicina, non trovo un momento in cui ho preso le distanze dalle discipline umanistiche per dedicarmi unicamente a quelle scientifiche. Ricordo che già allora, sin dai primi anni academici, era costante in me il dialogo tra tutto ciò che è arte (termine che amo molto!) e la scienza. Era molto intrigante studiare a quei tempi perché, se da una parte mi si chiedeva un impegno enorme per comprendere, ad esempio, i difficili meccanismi alla base della fisiologia umana, dall’altra mi sembrava possibile poter attingere dall’universo delle humanities per provare a darmi risposte su tematiche complesse e dilemmi etici. Nel mio caso – ci tengo a sottolineare che questo dipende unicamente da gusti personali – quando parlo di arte mi riferisco in particolare alla letteratura e al cinema.
Tuttavia, volendo individuare un momento epifanico in cui ho «scoperto» la medicina narrativa, devo dire che l’aver conosciuto la Fondazione Sasso Corbaro di Bellinzona (legata all’Ente Ospedaliero Cantonale, gli ospedali pubblici del Cantone Ticino per i quali lavoro) mi ha permesso di incontrare persone che facevano ricerca e insegnavano questa materia. Ciò è stato essenziale per dare un valore più definito e concreto a qualcosa che, fino ad allora, avevo vissuto più come una dimensione individuale che come uno strumento di cura.
Esiste una definizione “ufficiale” di medicina narrativa?
Potrei sbagliarmi ma non mi pare esista una definizione, per così dire, «da manuale» e condivisa a livello internazionale di medicina narrativa. Personalmente, quando mi capita di dover spiegare di cosa si tratta faccio ricorso alla prima parte del libro di Rita Charon, Narrative Medicine – Honoring the stories of illness, intitolata «What is Narrative Medicine?». In particolare, Charon dice di utilizzare il termine medicina narrativa per indicare una medicina
«praticata con le competenze che ci permettono di riconoscere, recepire, interpretare le storie di malattia e reagirvi adeguatamente».
Inoltre – volendo così sottolineare la forza della comunità di coloro i quali si occupano di medicina narrativa –dopo aver conosciuto e dialogato in alcune occasioni con Maria Giulia Marini (Direttore scientifico e dell’innovazione Area Sanità e Salute ISTUD ed esperta di medicina narrativa e di Medical Humanities), quando mi rivolgo a chi di medicina narrativa non ne ha mai sentito parlare, utilizzo la sua definizione redatta per l’enciclopedia Treccani, di cui mi permetto qui di citare le prime righe:
«[la medicina narrativa è una] metodologia (nota anche come narrative medicine) che stimola la narrazione, da parte del paziente, del proprio stato di malattia, nell’intento di dare senso e quindi sollievo alla sofferenza, di favorire la creazione di un rapporto di fiducia e comprensione tra malato e personale medico e di capire il quadro patologico individuale, ossia nello specifico contesto della persona sofferente».
Di questa definizione di Marini amo particolarmente quei «dare senso» e «sollievo alla sofferenza» che sono convinto debbano sempre essere gli obiettivi ultimi per chi di cura si occupa.
Lei come interpreta la medicina narrativa?
Devo premettere che, come citato sopra, nutro un forte interesse per la letteratura e il cinema. Queste arti, e in particolare la prima, sono i soggetti di una mia costante ricerca sia personale – direi quasi interiore – che propriamente scientifica. Inoltre, sono ciò di cui mi occupo alla Fondazione Sasso Corbaro.
La mia interpretazione di medicina narrativa è quindi fortemente legata ad una scrittura che non sia soltanto strumento di comunicazione, ma che si prefigga parimenti una finalità artistica. Conscio che questo è solo una parte della medicina narrativa, devo però qui affermare che si tratta della parte di mio maggior interesse. Ritengo che la scrittura letteraria – quel tipo di scrittura che ricerca finalità estetiche mediante il ricorso allo stile e alla forma – sia maggiormente in grado di fornire quelle «capacità narrative» menzionate, si veda sopra, da Rita Charon.
Qual è la storia della medicina narrativa e delle Medical Humanities?
Senza entrare in dettagli meramente storici che, molto onestamente, dovrei andarmi a ristudiare nel dettaglio… credo che la cosa più interessante da ricordare sia che le Medical Humanties nascono negli anni settanta, negli Stati Uniti, come reazione alla disumanizzazione delle cure avvenuta a seguito dell’importante trasformazione tecnico scientifica subita dal settore sanitario in quegli anni.
La Medicina Narrativa, sottoinsieme dell’insieme Medical Humanities, nacque invece alcuni anni dopo. Proprio Rita Charon è stata tra i principali pionieri di questa materia avendo dato il via al primo corso universitario di medicina narrativa alla Columbia University di New York e avendo pubblicato su prestigiose riviste scientifiche innumerevoli articoli su questi temi.