Qual è il ruolo di ciò che ancora non si conosce, nella medicina contemporanea? Può la filosofia darci degli strumenti per affrontarlo? Su queste tematiche, proponiamo un’intervista a Dien Ho, PhD, Associate Professor di Philosophy and Healthcare Ethics, direttore del Centre for Health Humanities del Massachusetts College of Pharmacy and Health Sciences (MCPHS) a Boston. Di recente pubblicazione è il suo A Philosopher Goes to the Doctor: A Critical Look at Philosophical Assumptions in Medicine.
D. Che ruolo ha l’ignoto, in un mondo di Medicina basata sulle evidenze?
DH. In generale, la Medicina basata sulle evidenze (Evidence-Based Medicine, EBM) classifica la qualità delle evidenze sulla base dei trial clinici. Gli studi clinici randomizzati, o le meta-analisi che li contengono, solitamente sono in cima a questa classifica, mentre i resoconti aneddotici o la plausibilità biologica stanno più in basso. Sebbene sulla EBM si possano porre delle serie questioni epistemiche (ad esempio, cosa succede quando un trattamento ha delle evidenze limitate sulla base dei trial clinici randomizzati, mentre un altro trattamento presenta ampi resoconti aneddotici? Come bilanciamo la qualità con la quantità?), molte delle sfide che ci pongono le malattie a noi ancora sconosciute precedono concettualmente la EBM.
Per identificare l’eziologia di una malattia e i suoi potenziali trattamenti, dobbiamo prima stabilire che ciò che ci sta di fronte, a livello fisiologico, sia, di fatto, patologico. In altre parole, se una condizione umana costituisca o meno una malattia è una domanda a cui dobbiamo rispondere prima di discutere il supporto dell’EBM nell’affrontarle. La definizione di malattia (e, relativamente, di salute) non è una semplice questione biologica. Ci sono parecchie funzioni biologiche “normali” che noi rendiamo patologiche e trattiamo come tali. La concentrazione, nel nostro ciclo di vita, dell’assorbimento di calcio potrebbe avere senso da un punto di vista evolutivo. Dare priorità alla nostra capacità di riparare le nostre ossa in età fertile, rispetto a ossa più fragili in età avanzata, massimizza le possibilità dei nostri geni di replicarsi. Nelle epoche in cui la maggior parte degli esseri umani moriva prima dei quarantacinque anni, non abbiamo mai dovuto pagare per questa concentrazione. Tuttavia, per coloro che vivono ben oltre il nostro termine “naturale”, le ossa fragili diventano un rischio reale per la salute. Ed è difficile immaginare qualcuno suggerire che l’osteoporosi non sia una patologia ma il risultato dell’evoluzione.
Se una condizione sia o meno una patologia, dobbiamo determinarlo in modo extra-biologico. La ricerca empirica degli studi clinici, verosimilmente, non può rispondere a questa domanda per conto nostro. In questo senso, prima che subentri l’EBM, dobbiamo porci alcune domande sociali e filosofiche di base riguardanti il processo di patologizzazione di una condizione. Ciò è particolarmente pertinente, dal momento che la medicalizzazione delle condizioni umane è un fenomeno in crescita sin dall’avvento della medicina moderna. La nostra crescente capacità di controllare la fisiologia può facilmente indurci alla conclusione che le condizioni umane debbano essere controllate. È opportuno tenere presente che, spesso, il processo di patologizzazione è stato storicamente guidato da norme sociali, fanatismo e incentivi finanziari.
D. I medici lottano con l’ignoto, anche perché i pazienti vorrebbero ricevere delle certezze. Può la filosofia apportare qualche aiuto allo studio, all’esplorazione e alla reazione all’ignoto?
DH. Uno dei temi ricorrenti che ho incontrato nella mia ricerca sulla filosofia della medicina è l’assunzione ubiqua che le scienze mediche possano mappare la tassonomia delle malattie sulla base di alcune categorie reali e oggettive. O per dirla senza giri di parole, le scienze mediche non fanno errori, dal momento che possono classificare le malattie in eziologie reali.
Allo stesso tempo, anche il più superficiale sguardo alla tassonomia delle malattie potrebbe evidenziare che spesso ammassiamo insieme le malattie sulla base dei sintomi e di come si presentano. Queste malattie funzionali non hanno una ovvia e comune eziologia alla base; ciò che le collega insieme è che sembrano simili. La malinconia, per esempio, includeva tutto, dalla depressione all’ansia di marginalizzazione. Oppure, prendiamo la glomerulosclerosi focale segmentaria (GSSF), una malattia categorizzata sulla base della cicatrizzazione dei tessuti del rene, che può portare a insufficienza renale negli adulti e a sindrome nefritica nei bambini. Le cause della GSSF includono l’obesità, il lupus, l’uso di eroina, e l’HIV. La GSSF primaria è categorizzata come condizione idiopatica con cause sconosciute. L’unica cosa che collega queste condizioni sotto la stessa “etichetta” di GSSF è come ci si presentano in apparenza. Infatti, ogni volta che un clinico incontra una diagnosi che sembra mancare di una eziologia sottostante comune, questa viene tipicamente indicata come una versione idiopatica della malattia. Le presentazioni funzionali sembrano giocare un ruolo chiave in come categorizziamo le malattie.
Per affermare che la medicina possa mappare la tassonomia delle malattie sulla base di qualche caratteristica causale e oggettiva, dobbiamo supporre che c’è qualcosa su cui avere ragione. Questa è ovviamente una questione profondamente filosofica. Di fatto, è una variazione del dibattito classico sul realismo scientifico. Più significativamente, la questione del se la medicina può avere ragione ci obbliga anche a pensare allo scopo ultimo della medicina, come disciplina di ricerca e come modalità terapeutica. Se possiamo alleviare con successo tutti i sintomi non voluti (incluso l’impedire la mortalità!), importa se la medicina rinuncia al compito di farlo bene? Se la medicina clinica può con successo migliorare le nostre vite, importa se non sappiamo niente dell’eziologia sottostante (se c’è qualcosa da sapere)? Rispetto a questo, iniziamo a offuscare la linea tra le malattie sconosciute e le malattie che siamo incapaci di trattare. In filosofia, è una cosa grave far collassare insieme la metafisica e l’epistemologia; in medicina, il suo servizio in favore del benessere umano potrebbe rendere questa fusione meno “peccaminosa”.
D. Le malattie non diagnosticate rappresentano una sfida: ritieni che solo gli studi genetici possano dare una soluzione? (Personalmente, penso che se ogni mutazione del DNA rappresentasse una malattia, noi tutti saremmo affetti da milioni di malattie al giorno!).
DH. Gli avanzamenti nella genetica ci hanno chiaramente dato strumenti per cambiare in maniera monumentale le nostre espressioni fenotipiche. Ho anche pochi dubbi che molte spaventose situazioni umane siano il risultato di devianze genotipiche. Eppure, capire come lavorano i nostri geni non risponde alla domanda se una variazione genetica è patologica.
Come per la definizione delle malattie, come delineiamo i genotipi patologici da quelli “sani” non è una questione empirica. Spesso pongo ai miei studenti questa domanda: quale scoperta, a livello fisiologico o genotipico, deve avvenire per poter concludere che l’omosessualità è una malattia? Per me, la risposta è nessuna. Supponiamo che si verifichi che l’omosessualità può essere ricondotta a una variante genetica che causa una secrezione sopra la media di alcuni ormoni in utero. Si concluderebbe quindi che è una malattia? Consideriamo la rimozione dell’omosessualità come disturbo sessuale dal DSM come un progresso significativo in psicologia. Sospetto che il cambiamento (avvenuto nel corso di decenni) sia il risultato dell’accettazione dell’omosessualità come forma ugualmente legittima della sessualità umana. In questo caso, la scienza segue l’etica. In effetti, la mia impressione è che la scienza segua sempre l’etica; è solo che spesso siamo ciechi rispetto a come valori e norme guidino implicitamente ed esplicitamente la nostra pratica scientifica.
C’è anche un altro problema che vale la pena tenere a mente. All’interno del genoma umano, la stragrande maggioranza dei nostri geni non ha delle espressioni fenotipiche, né vi sono dei geni assolutamente “cattivi”. Molti di questi geni sono un’eredità, in quanto sono rimasti nel nostro DNA dai nostri antenati in poi. Da un punto di vista evolutivo, vengono tramandati di generazione in generazione perché non ci impongono dei costi riproduttivi; sono dei free riders, per così dire. Ma ci sono anche geni che si avvantaggiano a spese dell’organismo ospite. Un particolare segmento di geni trovati nel genoma del comune moscerino della frutta accorcia la sua vita del 15%. Sembra che questi geni non debbano sopravvivere, dal momento che il loro ospite ha meno probabilità di riprodursi, a causa di questa morte anticipata. In genere, qualsiasi gene ha una probabilità del 50% di passare alla generazione successiva. Ma questi geni molto speciali sono riusciti, in qualche modo, a far pendere l’ago della bilancia in loro favore, così da avere una probabilità di passare del 60%. Questo leggero vantaggio riproduttivo conferisce ai geni di sopravvivere anche se stanno sabotando l’organismo di cui il genoma fa parte. La morale della storia è che è scorretto pensare ai nostri geni come a un’unica entità con lo stesso interesse riproduttivo. Non è solo il caso che ciò che è nell’interesse dei nostri geni potrebbe non essere nel nostro interesse, in quanto, all’interno dello stesso genoma, non tutti i segmenti hanno gli stessi interessi. Mi piace pensare ai nostri geni come a una gigantesca stazione ferroviaria. Proprio come ha poco senso parlare della destinazione in cui tutti vogliono andare, non ha molto senso parlare del nostro corredo genetico. Siamo un’anarchia disordinata di programmi genetici in competizione a cui capita di accontentarsi di una distensione.
Quando la ricerca genetica si avventura nel dominio di ciò che è patologico e ciò che non lo è, o ciò che fa parte della natura umana e ciò che non ne fa parte, fa l’errore di pensare che c’è un modo semplice e ovvio per delineare quali segmenti del nostro genoma ci costituiscono e cosa non. Non esiste più un’unica identità genetica, così come non esiste un’unica cultura americana.
D. Recentemente, hai tenuto una lezione al MIT sull’effetto sconosciuto del placebo: qual è il messaggio principale che possiamo imparare dal placebo?
Implicita, in gran parte della ricerca sul placebo, è l’idea che in qualche modo il suo lavoro e la sua natura siano misteriosi, e forse addirittura non scientifici. Questo, naturalmente, presuppone che le interazioni non-placebiche siano comprese chiaramente e che ricadano sotto un lineare meccanismo causale – due ipotesi che sono altamente discutibili.
I placebo mi affascinano perché sembrano sfidare il modo in cui pratichiamo la medicina clinica. In definitiva, non c’è davvero nulla di misterioso nei confronti dei placebo. Ogni volta che qualcuno dice che i placebo riguardano più la mente del corpo, sottolineo che la mente è anche il corpo (nonostante il dualismo cartesiano): i placebo in realtà riguardano il corpo oltre il corpo. Sicuramente, gli effetti placebo sono probabilmente tutti nella tua testa ma poi, di nuovo, lo è anche il tuo cervello.
L’esistenza degli effetti placebo mi sembra piuttosto consolidata, specialmente in termini di potere analgesico. Una critica comune ai placebo è che sono efficaci solo per condizioni “soggettive”, come il dolore, l’ansia e la fatica (esiti che dipendono in gran parte dalle segnalazioni dei pazienti), ma che sono inefficaci per condizioni “oggettive”. Alcune cose da tenere a mente. In primo luogo, ci sono alcuni studi che mostrano che i placebo possono avere effetti notevoli su condizioni “oggettive” come il conteggio delle cellule T, la mobilità e la pressione sanguigna. Uno dei casi più incredibili che ho letto riguarda un giovane che, nel tentativo di suicidarsi, ha ingerito tutti gli antidepressivi che gli sono stati dati in una sperimentazione clinica. La sua pressione sanguigna è scesa a 80/40 e aveva bisogno di infusione di liquidi per mantenere la pressione normale. Il curante al pronto soccorso ha contattato il ricercatore principale dello studio e ha appreso che il giovane era in effetti nel ramo placebo dello studio. Invece di ingerire antidepressivi, aveva ingerito 29 pillole placebo. Quindici minuti dopo aver appreso questa notizia, la sua pressione sanguigna è tornata a 120/80. L’articolo su questo caso descrive il giovane come in overdose da placebo. Simili risultati “oggettivi” sono stati osservati in casi di finti interventi chirurgici in cui le fratture indicate chiaramente non erano state trattate, ma i pazienti hanno riacquistato mobilità.
In secondo luogo, il rifiuto del placebo come un qualcosa di interamente soggettivo deriva dalla miope attenzione della medicina moderna sui “fatti misurabili”. Non solo chiediamo ai pazienti come si sentono come un modo per valutare l’efficacia di un trattamento, ma questo sposta anche l’attenzione clinica dall’alleviare il disagio dei pazienti all’ossessione per i numeri. Sospetto che i bias del trattare e del medicalizzare derivino in parte dalla nostra enfasi sui numeri.
Infine, vi è un’ipotesi di base che possiamo tracciare una linea relativamente chiara tra misurazioni soggettive e oggettive. I filosofi della scienza hanno indagato come il più preciso dispositivo di misurazione si basa in definitiva su una pletora di valori e norme. In breve, fintanto che la tassonomia concettuale (tipi di sangue, raggruppamento di malattie o sesso) dipende dai valori, qualsiasi dispositivo che mira a misurare questa tassonomia erediterà ovviamente gli stessi valori. L’idea che le misurazioni oggettive siano in qualche modo più immuni dai pregiudizi e dai valori soggettivi è una condanna rimasta dai giorni del positivismo – una visione che è stata in gran parte abbandonata da quelli della filosofia della scienza.
Una cosa che ho imparato dalla mia ricerca sul placebo è quanto gran parte dei benefici terapeutici della medicina moderna dipenda da alcuni atti performativi. Da come etichettiamo un farmaco al colore di una pillola, dalla credenza nei benefici terapeutici della medicina all’abito di un clinico, le sottili caratteristiche degli ambienti di cura contribuiscono all’efficacia terapeutica. Anzi, piuttosto che pensare che c’è una distinzione tra l’ambiente di guarigione (uno studio medico, il suo atteggiamento, la fiducia che si ha nella medicina, e così via) e l’intervento stesso (chemioterapia, antibiotici, fisioterapia, ecc.), è meglio pensare l’intera esperienza di guarigione come una grande unità senza una distinzione significativa tra contesto e intervento. I placebo sono stati tipicamente relegati nella parte contestuale della terapia. Se l’immagine che sto proponendo è corretta, la linea tra placebo e trattamenti standard non esiste. In fin dei conti, ciò che conta è migliorare il benessere dei pazienti; quanto di esso sia dovuto al contesto e quanto all’intervento non è solo irrilevante, ma anche, in linea di principio, impossibile da scoprire (come ho sostenuto altrove).
D. Dare un nome alla malattia: la maggior parte delle malattie porta il nome di chi l’ha scoperta. Molto diverso da quanto è successo al morbo di Parkinson, che, una volta scoperto da Parkinson, ha ricevuto proprio da lui il nome di paralisys agitans… Molto meglio dare un nome, rispetto allo spiegare cosa succede al corpo. Pensi che il linguaggio debba aiutare nel dare un nome alle nuove (o vecchie) malattie, sostituendo nomi difficili usati più come patronimici?
DH. Ricordo una storia simile per l’Alzheimer. Apparentemente, i pazienti erano comprensibilmente sconvolti nell’apprendere che la diagnosi fosse di “progressivo deterioramento della mente”. Il nome Alzheimer è stato introdotto per mascherare la gravità della condizione. Nella mia esperienza clinica, ho visto gli oncologi trattenersi dal dire “cancro”; invece, termini più morbidi come massa e crescita insolita prendevano il posto della “parola con la C”. Ho qualche dubbio sul fuorviare intenzionalmente i pazienti con termini che si sperano possano evitare i contraccolpi delle diagnosi difficili.
Un approccio più saggio è quello di sottolineare la mancanza di certezza nelle nostre diagnosi e trattamenti. Come un medico ben noto una volta mi disse: Sappiamo che circa un terzo di quello che facciamo è probabilmente inutile. La parte difficile è capire qual è questo terzo. La medicina, sia come ricerca che come terapia, contiene molta più incertezza di quella che mostra. Un po’ di umiltà non solo attenua alcuni dei problemi etici del paternalismo, ma invita anche i pazienti a partecipare da pari a pari.
D’altra parte, voglio offrire un punto di vista alternativo. Forse, un’aria di fiducia è necessaria per l’efficacia terapeutica della medicina. Se i pazienti scoprono che i medici sanno molto meno di quello che dicono, potrebbero effettivamente rendere meno efficaci i trattamenti di routine. Un caso recente in Australia illustra la complessità del problema. Una società farmaceutica ha iniziato a commercializzare il marchio ibuprofene in diverse confezioni, ognuna delle quali evidenziava lo scopo specifico del farmaco. Ce n’era uno per il mal di testa, uno per il mal di schiena, e così via. Tuttavia, tutti i diversi tipi contengono lo stesso farmaco nello stesso identico dosaggio. Eppure, sono stati venduti a prezzi diversi. Dopo la protesta pubblica, la compagnia farmaceutica ha ritirato il farmaco. Per quanto questo possa sembrare un esempio della necessità di trasparenza, non sono del tutto certo che sia stato un bene per la medicina e per i pazienti. Un farmaco funziona meglio se ci viene detto che tratta in modo specifico una determinata condizione. I farmaci per il mal di schiena funzionano meglio per il mal di schiena di un farmaco per il mal di testa, anche quando contengono gli stessi identici ingredienti. “Alzando il sipario”, potremmo benissimo demistificare l’aspetto performativo che costituisce una parte della magia terapeutica. Si dice spesso, a chi si interessa di politica, che non si vuole vedere come viene fatta una salsiccia e nemmeno come viene approvata una legge. Forse non vogliamo vedere come funziona la medicina. Vedere può essere incredibile.