Potrebbe presentarsi e presentare il suo lavoro?
Mi chiamo Emilia Guglielmucci e lavoro come Assistente Sociale presso l’Istituto Geriatrico Redaelli di Milano da circa 20 anni. Attualmente sono care Manager del servizio RSA Aperta che conta circa 130 utenti, faccio parte dell’equipe dei nuclei Hospice e Stati Vegetativi per la presa in carico globale dei pazienti e dei loro familiari. Inoltre collaboro alle proposte formative per l’equipe di cura di entrambi i nuclei e per i familiari del nucleo SV sfruttando anche spunti di medicina narrativa. Sono referente per alcuni reparti di degenza RSA con la presa in carico dei pazienti e dei loro familiari, laddove presenti e di alcuni reparti di cure intermedie collaborando ai progetti di dimissione al termine dei percorsi riabilitativi.
L’attenzione alle persone e alle relazioni insito nel lavoro dell’assistente sociale mi ha portato a voler approfondire ed affrontare anche temi come gli abusi e il maltrattamento agli anziani in ambito socio sanitario collaborando con altri colleghi a progetti di ricerca, sensibilizzazione, informazione e formazione sull’argomento all’interno del nostro Istituto.
Cosa intende lei per la violenza in ambito sanitario?
I dati emersi da una ricerca svolta attraverso interviste semi strutturate sul tema del maltrattamento, negli anni 2017 e 2018, seppur non rilevando abusi fisici o maltrattamenti eclatanti, hanno evidenziato in alcuni ospiti un maggiore bisogno di attenzione, di ascolto, di rispetto della persona nelle semplici attività della vita quotidiana, bisogno spesso filtrato dal voler giustificare l’operatore costretto alla fretta dall’eccessivo carico di lavoro.
Pensando alla mia esperienza trattando questi temi, a tutti gli ospiti e agli utenti che ho conosciuto in questi anni, alle loro storie e alle nuove relazioni che hanno dovuto instaurare entrando in Istituto, penso che violenza sia non ascoltare l’altro, non “chiedere permesso”, non rispettare i tempi e gli spazi dell’altro, imporre le decisioni senza possibilità di scelta, non rispettare l’altro come persona con la propria storia e la propria individualità che necessariamente si affida perché si trova in uno stato di bisogno e di dipendenza, che ha bisogno di avere fiducia nell’operatore.
Violenza è tradire tale fiducia attraverso atti d’incuria, di isolamento, di costrizione fisica, di vessazione psicologica e indifferenza, di abuso farmacologico o negligenza. Spesso è l’organizzazione che impone tempi e procedure che rischiano di far diventare le attività semplici prestazioni rendendo l’attività assistenziale meccanica e ripetitiva. Lo stesso percorso di accoglienza di un ospite in RSA può essere considerato un “abuso” quando non è condiviso con il ricoverato, che si trova suo malgrado ad affrontare condizioni comunitarie che non aveva scelto.
Come si può rilevare la violenza laddove non si manifesta in singoli episodi eclatanti?
Riconoscere la violenza in ambienti socio sanitari è difficile anche perché difficilmente le vittime trovano il coraggio di denunciare, per paura di ritorsioni, per rassegnazione di dover accettare tali comportamenti perché ricoverati in struttura.
Ricordo ancora il commento di un ospite durante un’intervista “bisogna adattarsi… ci si deve abituare”. Molti ospiti non hanno la capacità di rispondere, di raccontare.
L’unico modo per rilevare dei segnali di abuso o violenza è osservare le persone con sguardo attento e interessato. Osservare partendo dall’esterno, se indossano abbigliamento adeguato, pulito, se la loro persona è pulita, se presentano strani lividi o segni sulla pelle. Se la loro vigilanza e la loro capacità di comunicare è cambiata.
Ma bisogna osservare anche ciò che non si vede, infatti le vittime possono cambiare atteggiamenti, possono manifestarsi paure, tendenza all’isolamento, pianti improvvisi, inappetenza, cambi d’umore, fino a segnali più gravi che conducono alla perdita della voglia di provare a cambiare le cose rassegnandosi a subire gli eventi.
Bisogna fermarsi a parlare con loro, cercare di capire le cause di tali cambiamenti. Ma per farlo bisogna innanzitutto essere consapevoli che tali atti di violenza possono accadere, che non è impossibile che ciò accada o che sia accaduto.
Vuole raccontarci il lavoro ed i risultati della ricerca narrativa svolta all’Istituto Redaelli di Milano?
Da quando ho conseguito il Master nel 2019 ho proposto diversi progetti di medicina narrativa all’interno dell’Istituto.
Il primo è nato con il master stesso e riguardava i familiari e gli operatori del nucleo stati vegetativi. L’obiettivo, attraverso la proposta di compilazione di diari semi-strutturati, era di offrire agli operatori, uno spazio di pensiero per esplorare il loro mondo emotivo in relazione al lavoro nel nucleo e avere la possibilità di conoscere meglio il vissuto e le emozioni dei familiari, ai familiari, offrire uno spazio di pensiero dove esplorare e poter mettere in ordine gli eventi che li avevano condotti fino al nucleo.
L’elaborazione e la restituzione di tali dati sono diventati oggetto di ulteriori progetti per i quali ho chiesto la collaborazione di altre figure professionali affinchè le emozioni rilevate potessero trovare la giusta accoglienza e possibilità di elaborazione: per gli operatori sono diventati spunto di discussione e riflessione durante un percorso di counseling di gruppo con una psicoterapeuta esperta; per i familiari sono diventati temi di confronto, discussione e confronto in gruppo con la supervisione di una psicologa esperta di arteterapia che ci ha permesso di riportare in immagini le emozioni espresse. Purtroppo quest’ultimo percorso è stato bruscamente interrotto a causa della pandemia.
Ma la pandemia mi ha spinto a cercare proposte di progetti che potessero scalfire l’isolamento sociale a cui erano costretti gli ospiti. È nato così il progetto “Storie in quarantena”, interviste semi-strutturate proposte in conversazioni telefoniche dalle animatrici ad alcuni ospiti che hanno accettato di raccontarsi. L’obiettivo era di poter offrire un appuntamento telefonico nel quale poter raccontare la loro esperienza durante la pandemia. Sono emerse tante emozioni, prima fra tutte la paura e l’isolamento, il sentirsi in gabbia, la solitudine ma anche la gratitudine verso gli operatori per il grande lavoro svolto. Abbiamo offerto agli ospiti la restituzione in piccoli gruppi, appena ci è stato possibile, durante i quali hanno avuto la possibilità di confrontarsi e di ri-raccontare la loro esperienza laddove proprio la mancanza di confronto e supporto reciproco era emerso come criticità durante le interviste telefoniche.
Il progetto chiamato post-it rivolto agli operatori del nucleo Stati vegetativi, sempre attraverso un diario con spunti di scrittura ha fatto emergere come durante la pandemia, nonostante la costante paura e le difficoltà, l’equipe si sia scoperta forte e coesa mettendo in secondo piano problemi e dinamiche relazionali poco efficaci, che prima della pandemia ritenevano importanti.
Una volta costruito un quadro di violenza e abusi in RSA, come si può agire per disinnescarlo e prevenirlo?
A questa domanda abbiamo riflettuto a lungo durante le nostre ricerche, nella pratica quotidiana e con i miei colleghi siamo sicuramente d’accordo su quanto emerge dalla letteratura e cioè che per poter fermare e prevenire un fenomeno bisogna innanzitutto conoscerlo, riconoscerlo e non negarlo.
Accettare la possibilità che tale fenomeno possa accadere e che tutti possiamo “abusare” di un altro/altra, pur non essendo coscienti di farlo. Bisogna informare, sensibilizzare diffondere i dati raccolti e avere il coraggio di dare il giusto nome agli eventi, farsene carico e attivare un corretto percorso d’intervento.
Occorre inoltre osservare consapevolmente i propri e gli altrui comportamenti, soprattutto durante le attività assistenziali, valorizzando le buone pratiche e cercando di correggere quelle cattive. Ciò presuppone che gli operatori siano accompagnati ed ascoltati, resi edotti delle caratteristiche del singolo ospite, occorre che il piano assistenziale diventi progetto di vita condiviso e discusso in equipè e che l’organizzazione ne tenga conto.
Nel mondo delle Nel mondo delle environmental humanities esiste il concetto di slow violence, formulato da Rob Nixon nel 2011, e che l’autore così definisce nel suo libro: “a violence that occurs gradually and out of sight, a violence of delayed destruction that is dispersed across time and space, an attritional violence that is typically not viewed as violence at all”. Crede che esistano fenomeni simili nel mondo della salute e della sanità? Che similitudini e differenze trova?
Questa definizione racchiude bene l’immagine dell’abuso silenzioso, ripetuto, che scava nella quotidianità di piccoli gesti come il ritardo in alcune operazioni d’igiene, l’indifferenza di fronte ad una richiesta, la supponenza di chi fa pesare all’altro di essere in una posizione di dipendenza. La parola “logoramento” credo racchiuda benissimo lo stato emotivo e psicologico di chi quotidianamente si sente a disagio e non riesce a dirlo, di chi soffre ma pensa di non avere scelta, di chi silenziosamente accetta per non alimentare la sua paura.
Ascolto, interesse, sguardo attento, presa in carico globale, condivisione in equipe…sono queste secondo me le parole chiave per la prevenzione.