NARRAZIONI: TRA STEREOTIPO E VEROSIMIGLIANZE – DI FABIO BIANCO MADAU.

“Mi chiamano Agrado perché per tutta la vita ho sempre cercato di rendere la vita gradevole agli altri… oltre che gradevole sono molto autentica. Guardate che corpo… tutto su misura.

Occhi a mandorla 80 mila.

Naso, 200 buttateli tutti perché l’anno dopo me l’hanno ridotto così con un’altra bastonata.

Tette, due, perché non sono mica un mostro, però le ho già super ammortizzate.

Silicone… naso, fronte, zigomi, fianchi e culo. Un litro sta sulle 100 mila, perciò fate voi il conto perché io già l’ho perso.

Limatura della mandibola 75 mila.

Depilazione definitiva col laser, perché le donne vengono dalle scimmie quanto l’uomo, sino a 4 sedute, però se balli il flamenco ce ne vogliono di più è chiaro.

Quello che stavo dicendo è che costa molto essere autentica signora mia… e in questo non bisogna essere tirchie, perché

una più è autentica quanto più somiglia all’idea che ha sognato di se stessa.

(Todo sobre mi madre, Pedro Almodóvar, 1999)

Così recita Agrado, iconico personaggio di Almodóvar che, con la semplicità e schiettezza che la contraddistinguono, afferma un principio essenziale: ognuna è libera di essere se stessa e raccontare la propria storia come crede. Ma per raccontare e raccontarsi servono parole per definirsi. Questo diritto a narrarsi trova radici nel linguaggio, uno degli strumenti evolutivi più complessi e distintivi del genere umano. Parlare ci permette di condividere concetti, informazioni e istruzioni in maniera semplice e immediata, ma soprattutto permette di astrarre i concetti, maneggiarli con il pensiero, spostarli nel passato o proiettarli nel futuro, e riportarli al mondo sottoforma di parola.

Il linguaggio e il pensiero sono fortemente legati tra loro. Lo psicologo Jerome Bruner, a tal proposito, parla di due forme essenziali di pensiero: quello paradigmatico e quello narrativo. Mentre il primo si basa su prove e coerenza logica e ci permette di interpretare il mondo per concetti ed euristiche, il pensiero narrativo si basa sulla verosimiglianza e su quello che “ha senso” – o meglio: “può aver senso” – in termini di esperienza umana. Entrambi gli stili di pensiero sono fondamentali, ma quest’ultimo è

cruciale nella costruzione identitaria e nel dare senso a se stessi e alla realtà sociale che viviamo.

Posizionarsi all’interno di un contesto sociale, implica raccontare se stessi in una narrazione condivisa, determinarsi (e costruirsi) come esseri nel mondo. È la narrazione che dà senso al mondo, rendendolo comprensibile e significativo. Per costruire una storia abbiamo bisogno di individuare dei protagonisti, degli eventi, delle sfide e delle soluzioni. Questo è tanto vero nel micro quanto nel macro: una nazione ha senso di esistere quanto più i cittadini credono nei valori trasmessi dalle storie popolari. Un’organizzazione è tanto produttiva quanto più i lavoratori che la compongono credono nei suoi ideali. Una famiglia è tanto unita quanto solidi e condivisi sono i miti familiari che legano i parenti gli uni agli altri.

La parola permette la condivisione della regola, dell’ideale o del valore, ma la parola è anche quello che plasma la mente e auto- (o etero-) determina. Molte teorie di matrice psicosociale evidenziano l’effetto del labeling (o etichettamento), ovvero l’attribuzione di un’etichetta categorizzante a un comportamento, una persona o a un gruppo sociale. Le scienze sociali hanno analizzato questo fenomeno per dimostrare quanto la categorizzazione sociale possa impattare sulla percezione degli altri verso l’oggetto categorizzato, ma anche sulla sua stessa autopercezione. Se si etichetta una persona come malata, si dà alla società il potere di imporre la sua definizione di malattia su di lei, mentre avere parole per definirsi aiuta a liberarsi dalle etichette. Se una bambina viene battezzata come pigra e quindi trattata come tale, con ogni probabilità si muoverà nel mondo in maniera pigra. Se a quella bambina, una volta adulta, attribuiamo la categoria e descrizione di depressa, quella donna si sentirà e comporterà da persona depressa e allo stesso modo verrà trattata, in una spirale viziosa.

Quanto descritto non è vero soltanto per le categorie diagnostiche ma anche per le categorie sociali, soprattutto quelle minorizzate, ovvero considerate “minoranze” non solo per questioni numeriche, ma anche per subordinazione a gruppi dominanti. Un modello tra i più influenti per descrivere l’impatto che l’etichettamento e il conseguente stigma hanno sulle minoranze è il Minority Stress Model di Meyer (2003). Secondo questo modello teorico, le minoranze (nel caso in studio, le persone appartenenti alla comunità LGBTQIA+) vivono esperienze di discriminazione e stigma legate proprio alla percezione negativa e stereotipica che la società ha delle identità sessuali e di genere. Queste esperienze negative generano poi una forma di stress specifica, chiamata appunto “minority stress” – lo stress da minoranza.

Nel particolare, Meyer identifica due tipologie di stressor principali: i fattori esterni (quindi gli abusi, le discriminazioni, il rifiuto o la violenza vissuta o assistita) e quelli interni. Quest’ultimi riguardano le esperienze più emotive: il timore costante del rifiuto, l’internalizzazione del giudizio, il conflitto interiore con la propria identità dovuto al

giudizio esterno stigmatizzante. I fattori interni possono comportare un ulteriore livello di stress, che, in aggiunta agli stressor esterni (o distali), può impattare sul maggiore livello di disturbi interiorizzanti, quali ansia e depressione.

La violenza, fisica o verbale che sia, porta a conseguenze tangibili e una forma di violenza può essere anche la povertà linguistica. Possedere un vocabolario limitato per definirsi, pensarsi per stereotipi o con aggettivi perlopiù negativi, vuol dire limitare il proprio sviluppo personale, negare ad un’identità di dischiudersi nel suo pieno potenziale. Significa delimitarne il perimetro, definendo fino a dove un’identità può autodeterminarsi e da che punto in poi, invece, diventa parte di un modello fisso, di uno stereotipo. Avere poche parole per descriversi significa avere poche idee per pensarsi e pertanto, nelle parole di Agrado, essere tirchi anche nel sognarsi.

Il modello di Meyer identifica nell’orgoglio identitario e nel supporto sociale degli importanti fattori di protezione. Essere liberi di esprimere un’identità sfaccettata e autentica aiuta a diminuire lo stress interno causato dal bisogno di nascondere parti di sé. In contesti dove le persone si sentono libere di esplorare e affermare la propria identità senza giudizio, si crea un ambiente che favorisce un’espressione identitaria più ricca e completa, migliorando il benessere psicologico e riducendo i rischi di distress. Rivendicarsi con parole proprie e circondarsi di persone che ci amano e supportano, può moderare l’effetto di una società sistematicamente marginalizzante.

Agrado stessa ci mostra quanto possa essere rivoluzionario definire se stesse e se stessi liberamente. Rivendicando la sua identità di donna transgender, il suo percorso di affermazione di genere e la sua libertà nel definirsi e raccontarsi, giocando ironicamente con il suo pubblico improvvisato, Agrado ci dice in pochi minuti qualcosa di potentissimo sull’essere fedeli a se stessi.

“Una più è autentica quanto più assomiglia all’idea che ha sognato di se stessa”

e, potremmo aggiungere,

“quante più parole ha per descriversi”.

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