Se oggi si desidera essere considerati “anti-riduzionisti” in relazione alla cura e alla medicina, la sociologia medica insiste nello spostare l’attenzione dall’organo malato da curare, o dalla malattia, al paziente: meglio, alla persona inserita nel suo contesto biologico, psicologico e sociale. Questo paradigma “bio-psico-sociale” rappresenta un’apertura che prende le distanze dal modello meccanicistico – ben esemplificabile nella metafora dell’uomo-macchina: quella per cui si rompono i pezzi che un bravo meccanico-medico deve riparare o rottamare – per reinserire l’essere vivente nel suo contesto sociale, essendo, come aveva anticipato Aristotele, l’uomo (o anthropos) un essere biologicamente vivente (bion) sociale (politikon). Era, ed è tuttora impossibile scindere il nostro vivere biologico dalle trame del luogo, delle relazioni, del vissuto quotidiano. E per curare in modo olistico – altra parola oggi molto inflazionata, dove olos significa intero – ecco che il modello bio-psico-sociale ci viene in aiuto.
Eppure, nella ricerca di relazione tra salute, malattia e contesto sociale, è sufficiente parlare di relazioni, figli, matrimoni, convivenze, fertilità, sessualità, e ancora scuola, lavoro, occupazione, disoccupazione, produttività, stipendio, contratto? Ci basta un parziale compendio della quotidianità, il pragmatismo del realizzato o dell’incompiuto? E quando compare una condizione di fragilità, di insicurezza o di malattia che ci costringe a fare i conti con il bilancio del dare o avere della nostra vita, ci accontenta questo paradigma? A oggi, i questionari di qualità della vita trattano le voci sopra citate, e come apice di contemporaneità registriamo la domanda chiave “Come vive la sua sessualità?”.
È domanda figlia dell’era storica che viviamo. Posta in questo modo, anche se narrata, ha in sé quel vago accento riduzionistico che ci porterà a una qualificazione oppositiva tra bene e male. Insomma, le infinite sfaccettature della nostra vita – inserite nella biologia, nella psiche, nelle relazioni più o meno produttive – non le facciamo respirare a sufficienza nelle nostre riflessioni, indagini e ricerche, riducendole a un mero schema di casa-lavoro-ospedale o altro luogo. Se è vero che siamo figli del nostro tempo, è anche vero che siamo inseriti in un tempo differente, quello cosmico. A noi però manca una cosmologia: o meglio, ci manca il tempo cosmico – dove cosmico significa, armonioso, bello, ciclico.
Stiamo ancora parlando del Tempo. Abbiamo già analizzato il tempo lineare (Chronos), il tempo opportunità (Kairos), il tempo eterno (Aion), ma non abbiamo ancora considerato il tempo circolare segnato dalle Ore (orai): le stagioni, che cadenzano con il ritmo ciclico della natura “l’eterno ritorno” [1] – primavera, estate, autunno, inverno, e ancora primavera. Il tempo è circolare non solo per i greci antichi, ma anche per le filosofie orientali: le poesie giapponesi, gli haiku sono scanditi sul ritmo delle stagioni. E lo stesso ritmo, nella sua etimologia, indica lo scorrere: Panta rei, “Tutto scorre”, come diceva Eraclito. Tutto scorre, come le Ore. La natura ha leggi ben precise: la terra si dispone in afelio, lontana dal sole in estate, e in perielio, vicino al sole in inverno, e tranne qualche piccolo riallineamento dell’asse terrestre o un catastrofico meteorite che ha distrutto i dinosauri, abbiamo molte probabilità statistiche che il sole sorga l’indomani [2], per cui possiamo dormire tranquilli.
Sin da bambini ci accorgiamo che qualcosa succede nella natura e che sì, il sole sorge l’indomani, ma in alcune stagioni la luce dura molto più a lungo ed è tutto un fiore, in altre invece la notte imperversa così come il freddo… Aspettiamo la primavera, attraverso la memoria della nostra infanzia, il metabolismo delle nostre cellule, o forse per l’inconscio collettivo[3]. Diamo così un colpo di falce al tempo lineare, Chronos, quel tiranno che procede inesorabilmente con gli anni: possiamo avere trenta, cinquanta, o settanta anni ma la primavera ritorna per il nostro pianeta e per il nostro corpo. Una meraviglia miracolosa. Ecco che, nel tempo ciclico, il ritmo che scorre trionfa e noi diventiamo Bionti nella Natura: Jung aveva visto lontano, quando si era interrogato sulla nascita del malessere della civiltà. Lo psicanalista l’aveva collocata proprio nella perdita del contatto con le stagioni, con la agricoltura, con il raccolto estivo, la semina autunnale, l’attesa invernale, e la rinascita della primavera. Primo vere: i latini chiamavano questa stagione la prima versione, la prima torsione. In greco era la prima e l’ultima delle Ore: Tallo, la fioritura della primavera, Auso, il rigoglio estivo, e Carpo, la raccolta dei frutti autunnale. Il freddo invernale non era associato ad una donna, ma al maschile Cheimon, che significa inverno, gelo, neve: non era una divinità, ma in un certo senso una caduta dalla divinità. Le Ore erano sorelle giovani delle tre Moire, le donne anziane che producevano le stame del filo del tempo lineare, lo filavano e lo tagliavano alla fine della vita, ed erano figlie di Zeus e Themi, l’ordine universale. Se le Moire segnano le regole del nascere, crescere, vivere e morire singolarmente, le Ore diventano le portatrici del tempo cosmico, delle leggi cicliche che comportano sempre una nuova rinascita. È lo stesso albero che si rigenera e ci insegna che nel regno vegetale il tempo circolare è sovrano, così come i mammiferi nelle loro diverse stagioni degli amori e della riproduzione.
Secondo civiltà ancora più antiche, le stagioni erano addirittura otto; e se riflettiamo sulle feste a noi tramandate ci rendiamo conto che sono anch’esse legate al filo dei movimenti astronomici del nostro pianeta, i due solstizi, i due equinozi e gli interludi stagionali. L’essere umano coglieva le variazioni del “tempo” che potremmo definire clima – da klima, ossia inclinazione dell’asse terrestre – e ne risentiva nell’umore. Le otto stagioni servivano per celebrare i momenti legati a Gea, la terra, inserita nel cosmo e nelle sue costanti mutazioni.
Cosa è rimasto a noi di questo moto, nel modello bio-psico-sociale? Oggi non è permessa alcuna curiosità legata a come viviamo le stagioni – anzi, questa parte più ancestrale e comunque sempre connaturata in noi, l’abbiamo dovuta “relegare” all’arte nelle tele dei musei, di cui paghiamo il prezzo del biglietto, come se fosse un lusso poter riflettere sulla natura. Ma noi siamo Natura, e il nostro ciclo dà senso alla vita anche verso la sua fine: l’arrivo di una nuova primavera è la sua meta e una piccola, parziale rinascita.
Non solo non è permesso sentire la nostra stagionalità, ma abbiamo medicalizzato la nostra alternanza di umore al tempo atmosferico, nelle stagioni in cui si è più affaticati e spenti. Il seasonal affective disorder, o il disturbo stagionale dell’umore, è diventata una patologia inserita nel DSM delle malattie psichiatriche. Se leggiamo la sua definizione, relativamente a quella invernale, è una forma che porta a “depressione, riduzione di energia, grande sonnolenza, aumento di peso e desiderio di carboidrati”[4]. È prevalente nel tardo autunno e in inverno. Secondo il criterio della società occidentale, imperniata sull’efficienza, va trattata con farmaci antidepressivi. Se esaminiamo bene quello che fanno i mammiferi nei boschi durante questa stagione, è pressoché simile a quanto scritto come patologico nel DSM, solo che è ordinariamente fisiologico – ossia naturale. La depressione altro non è che voglia di chiusura, la ricerca di una tana per stare al caldo, l’alcova: il sonno rallenta il metabolismo e quindi favorisce la sopravvivenza, così come noci e ghiande sono piene di calorie per resistere al freddo invernale. Il modello bio-psico-sociale non ammette il letargo. E in questi tempo moderni, alla Chaplin anche se Internet ha rimpiazzato la vecchia catena di montaggio della produzione, non è contemplato il periodo “sabbatico” dell’inverno, il dare ascolto al proprio corpo che vuole conquistare una nuova primavera.
Le Ore ci insegnano che possiamo inserire questa musica stagionale negli altri tre tempi. E così costruiamo un tempo a quattro dimensioni: quella eterna, quella istantanea, quella che scorre in avanti senza ritorno e quella dell’eterno ritorno.
Botticelli cinge la nudità della sua Venere con un velo coperto di fiori portato dalla Ora di primavera. E nella sua Primavera, Botticelli non ci restituisce una Venere sensuale e accattivante, ma una donna che aspetta un bambino. In armonia, quello che doveva accadere è accaduto: primavera ritorna con la sua Natura Naturans, una trasformazione alchemica dove dalla nigredo autunnale e invernale si passa all’ampiezza dell’arcobaleno di colori. La primavera arriva generosa, l’estate fruttifica, mentre l’inverno è un periodo di ritenzione e avarizia della terra.
C’è un altro mito che illustra l’alternanza del ciclo stagionale: quello di Persefone che nei sei mesi in cui convive con sua madre Cerere, la Dea delle Messi, genera la primavera e l’estate, mentre nei sei mesi in cui vive con suo marito Ade, il dio dei morti, si trascinano autunni e inverni in avarizia di messi e raccolti. Ed è anche dall’alternanza tra sereno e cielo grigio, tra semina e raccolto che impariamo a diventare saggi e pazienti: e per superare le difficoltà legate alla malattia, e altri traumi che la vita ci porta, le stagioni ci insegnano l’arte della Pazienza.
Narrare della salute e della malattia del proprio essere significa potersi permettere di ricongiungersi al tempo cosmico, quello più ancestrale, e ridare a questo ciclo la dignità e lo spazio necessario: non per una questione di giustizia, ma perché il ricongiungimento alle nostre radici ci porta ad una consapevolezza più rigogliosa. Forse ci allontana di più dall’oggettistica e dai totem, ma ci riconduce ad una spiritualità un po’ Zen. I giapponesi non solo vanno a passeggiare sotto i ciliegi in fiore, ma osservano in contemplazione i petali volteggianti nel vento prima di arrivare a terra. È lì che la moglie del poliziotto ammalata di tumore allo stadio terminale, chiede a suo marito di portarla, nello struggente film di Kitano, Hana Bi [5]: a vedere la fioritura dei ciliegi, ad assistere ad una rinascita rosa, e al distacco, poco prima della consapevolezza della morte. L’ordine cosmico è legge di natura: alienazione significa non essere più in grado di percepire la cosmesi dell’universo e il proprio corpo inserito nel mondo.
Se vogliamo ampliare l’orizzonte al modello bio-psico-sociale cominciamo quindi a ridargli quel senso del “cosmico”, della “natura” che la nostra civiltà occidentale, sempre più standardizzata non solo nei luoghi ma anche nella necessità di produzione continua ed eguale in qualsiasi stagione, non consente.
[1] KIm Ki Duk, Regista del Film “primavera, estate autunno inverno e ancora primavera”, 2003
[2] David Hume
[3] Carl Gustav Jung
[4] http://www.mayoclinic.org/diseases-conditions/seasonal-affective-disorder/basics/symptoms/con-20021047
[5] Hana Bi, Fiori Di Fuoco, Filografia Takeshi Kitano, 1997