Contributo di Alessandro Jachetti, medico di Pronto Soccorso
Se dovessi descrivere con una sola parola le ultime settimane nella nostra realtà milanese sarebbe paura. La paura siamo abituati a vederla, in Pronto Soccorso, la annusiamo spesso fin dal triage. La vediamo negli occhi di quasi tutti i nostri pazienti, chi più e chi meno, spesso associata ad altre emozioni quali imbarazzo, inconsapevolezza, fiducia o altre.
Ma posso dire con una certa consapevolezza, dopo qualche anno che faccio il Medico di Pronto Soccorso, che la paura è il fil-rouge che unisce tutti i nostri pazienti. Una paura giustificata, certo, dall’ignoranza della propria condizione medica per cui anche una febbre ci spaventa, oppure esacerbata da familiari ansiosi o da bombardamenti mediatici che spingono a ipermedicalizzare la nostra esistenza e a cercare aiuto medico ad ogni sintomo.
Tante volte noi operatori sanitari di dimentichiamo che l’utenza non ha le nostre conoscenze, per cui quello che per noi è un accesso improprio ai servizi di emergenza per una “banale influenza” non sempre appare tale con gli occhi dei pazienti, che sono spaventati e timorosi e si avvicinano a noi nella speranza che noi, stregoni moderni, li allontaniamo dalla morte.
Alla fine, indipendentemente dal contesto sociale o economico, la paura per l’ignoto, e in questo caso della morte per malattia, ci livella tutti e l’unico posto ove rivolgersi per sanare rapidamente le proprie paure è proprio il Pronto Soccorso. Anche l’aggressività spesso mostrata dai pazienti è frutto di stress e paura, comprenderla non vuol dire giustificarla ma ci permetterebbe forse di capire meglio come ci si sente dall’altra parte.
Ma se siamo così abituati alla paura, perché questa caratterizza queste ultime settimane? Perché questa è una paura diversa, una paura più contagiosa del coronavirus stesso, che affligge pazienti ma anche operatori sanitari.
Questa volta siamo noi, gli infetti. La paura la vedi quando gli operatori di triage scoprono che uno dei pazienti visti il giorno prima è risultato positivo al tampone e cominciano a rimuginare se tutti i DPI utilizzati erano messi correttamente, lo vedi quando i medici si tirano su la mascherina anche in sala relax quando parlano tra di loro bevendo un caffè o aspettano con ansia i risultati dei tamponi dei loro pazienti, la vedi quando i rianimatori si scervellano perché non hanno più posti per i pazienti, lo vedi quando gli specializzandi non escono più per bere una birra dopo il turno ma corrono a casa e aprono articoli del New England Jorunal of Medicine sugli aggiornamenti sull’epidemia, lo vedi quando gli OSS si avvicinano a malapena ai pazienti e distribuiscono il pasto con rapidità per restare meno possibile vicino agli stessi. La paura ha contagiato anche noi.
E poi la vedi negli occhi dei pazienti che si presentano al Pronto Soccorso, più grande di quella abituale, chiedono un tampone per Coronavirus come se da questo risultato dipendesse la loro vita. Lo vedi che saltano le convenzioni sociali, cominciano a supplicare indifferenti alle tue spiegazioni, non vogliono più un tuo parere o una visita, vogliono solo un tampone. Il tampone, il vero eroe di questa emergenza, positivo o negativo, bianco o nero, vivo o morto.
La popolazione, per via anche di scelte discutibili tra le autorità sanitarie e per via di un eccessivo carico mediatico, confida in questa sorta di Ponzio Pilato di plastica e cotone come se da questo dipendesse il loro futuro. Un oracolo tascabile che deciderà il tuo futuro. A nulla le spiegazioni sulla sua bassa sensibilità, sulla necessità di mantenere comunque le pratiche igieniche e le precauzioni per evitare i contagi, a nulla le rassicurazioni sulla sintomatologia sfumata o sulla bassa mortalità.
Questa ansia ha talmente contagiato i pazienti che di colpo gli altri sintomi, quel mal di schiena da un mese, quella tosse secca dopo mangiato, quelle vertigini che compaiono quando di alzi dal letto, sono scomparsi. Se dobbiamo ringraziare questa epidemia per qualcosa, questo è l’aver riportato i servizi di emergenza al loro ruolo primario, e aver rimesso in ordine le priorità dei pazienti, almeno per qualche tempo perché noi tutti sappiamo che, calmata la marea, queste centinaia di accessi impropri torneranno alla carica.
Tornando a noi, questa paura è così dilagata che ha rotto tutte le nostre relazioni, nessuno va più a mangiare con gli amici, a trovare i genitori o prende i mezzi pubblici. Quei pochi che escono trasaliscono ad ogni colpo di tosse o starnuto del vicino, per non parlare delle centinaia di terrorizzati che hanno immotivatamente assaltato i supermercati per fare scorte.
Ci siamo dimenticati che siamo (o dovremmo essere) un paese moderno e civile, abbiamo talmente poca fiducia nel sistema che ci chiudiamo in casa con le nostre scorte e ci fidiamo più dei social network che dei sanitari.
Eppure, in tutta questa grande paura, attesa e inevitabile, c’è una cosa che emerge più di altre ed è il coraggio. Il coraggio è figlio della paura perché senza quella non lo vedremmo e quindi, in questi tempi di terrore, si vede il coraggio di tutti gli operatori sanitari in prima linea, regolarmente al lavoro nessuno escluso, il coraggio dei laboratori e dei biologi che lavorano 24h al giorno per dare risposte, il coraggio dei direttori che approntano linee guida e indicazioni anche quando dalle Direzioni Sanitarie c’è incertezza e confusione, emerge il coraggio di un Servizio Sanitario Nazionale pubblico che, sì con paura ma anche con molto coraggio affronta la più grande emergenza biologica mai vissuta dal nostro paese a testa alta, dimostrando che i nostri valori e le nostre competenze non sono solo di alto livello, ma sono davvero al servizio di tutta la popolazione.
Questo coraggio, che sta poco a poco emergendo, sarà la vera guida per la popolazione e gli permetterà di riprendere fiducia di un sistema troppo spesso bistrattato e criticato, ma che è la salvezza di questo paese.