A mali estremi, estremi rimedi: con la pandemia del COVID-19, la telemedicina si sta affermando nel mondo, e rimarrà – di fatto, insieme allo smart working – qualcosa che caratterizzerà la nostra socialità con la classe medica e sanitaria. Ho aperto col detto A mali estremi, estremi rimedi perché in Italia, dal 2010, abbiamo fatto molto per osteggiare l’impiego della telemedicina, in particolare nella sanità, perché la televisita non era riconosciuta dal tariffario nazionale, a differenza di altri sistemi sanitari, tra cui quello francese.
Purtroppo, nella Pubblica Amministrazione vi sono stati diversi ostacoli nel realizzare programmi di telemedicina, benché la tecnologia fosse già pronta. L’intero sistema burocratico in sanità si sta snellendo – e uso una perifrasi progressiva – a causa del male estremo del COVID-19 per facilitare il triage dei pazienti e cercare di evitare i contatti in presenza; si snellisce anche la ricetta, che può essere spedita via WhatsApp dal medico al paziente e al farmacista per il recapito a domicilio. Insomma, le cose si sono per forza mosse: siamo quindi diventati più o meno animali digitali, e pullulano – dal New England Journal of Medicine al Lancet, alle riviste di Business come la Harvard Business Review – indicazioni su come rendere più efficaci le attività di assistenza medica, sanitaria, di servizio, di lavoro e didattica a distanza. Un’altra ragione che ha rallentato lo strumento digitale in Italia e forse nei paesi mediterranei – ragione molto contestuale al nostro modo d’essere – è che noi siamo un popolo di “contatto”, dove l’incontro, che si tratti di una lezione, di una riunione professionale o di una visita medica, è fondamentale. Le nostre distanze, tranne per chi lavora in contesti internazionali, non sono comparabili a quelle americane o australiane, dove il paziente può abitare a ottocento chilometri dall’ospedale, e quindi l’intero follow-up riabilitativo veniva effettuato già da anni a distanza.
Poco più di un anno fa, il 9 marzo 2019, un robot è apparso in una stanza di un ospedale americano, e attraverso uno schermo collegato in remoto con un medico lontano, il paziente, il Signor Quintana, è stato così informato
Probabilmente non tornerà a casa – I suoi polmoni non funzionano più.
La nipote, Annalisa Whilharm, che era presente, sapeva che era molto malato, ma sia lei sia la sua famiglia non avevano idea che la malattia fosse progredita fino a questo punto. La conversazione proseguì in modo unidirezionale con il dottore collegato in remoto che informava il paziente che non era conscio
C’è il rischio che il suo respiro sia troppo debole, non abbiamo cure efficaci ma possiamo darle una terapia di conforto con la maschera dell’ossigeno e iniezioni di morfina.
Dal momento che il paziente non poteva sentire né comprendere, la nipote aveva l’ingrato compito di tradurre in parole semplici la cattiva notizia e, involontariamente, fare un favore al medico ottenendo dal paziente il consenso legale necessario per togliere la maschera di ossigeno e passare alla sedazione palliativa (eufemisticamente chiamata “terapia di conforto”) attraverso la somministrazione di morfina. Quintana morì il giorno immediatamente successivo e la famiglia è tuttora in shock per l’accaduto.
Questo caso è diventato paradigmatico come uno dei peggiori esempi dell’uso della telemedicina: l’epoca era pre-pandemica e ci si poteva permettere di difendere a tutti i costi il contatto umano. È stata Trisha Greenhalgh, professore di Primary Care all’Università di Oxford (medico di medicina generale, epidemiologa, sociologa e autrice per la WHO delle linee guida sulla ricerca narrativa) ad aprirmi gli occhi a maggio 2019:
Non è questione tanto di tecnologia, perché in sé il digitale come la robotica sono strumenti neutri, ma di come e quando vengono usati: una persona non empatica in presenza molto difficilmente diventerà empatica a distanza.
In tutto questo attuale fiorire di protocolli sul triage anti COVID-19, per capire la gravità di altre malattie non trasmissibili, via telefono, WhatsApp o Skype per i pazienti più alfabetizzati dal punto di vista tecnologico, leggendo le varie pubblicazioni osserviamo che ci si concentra molto sull’efficacia e l’efficienza, ma dolorosamente meno – fino quasi a scomparsa – sull’empatia e come la si possa costruire in digitale. Anche perché, forse, dovremo lavorare così per molto tempo. Si è scoperto che porta efficienza e sicurezza, si spende molto meno tempo, e si è più focalizzati. Sulla qualità, rimane ancora un punto interrogativo.
Lo psicologo e antropologo Robin Dunbar, di Oxford, ha messo a punto un numero, detto appunto di Dunbar, in cui è giunto alla conclusione che gli esseri umani sono in grado di mantenere solo 150 relazioni sociali stabili, e due terzi del tempo vengono trascorse mediamente con 15 persone tra queste. Nelle sue riflessioni Relationships under lockdown, pubblicate il 16 aprile in un’intervista per Elsevier, afferma che l’uomo è un animale sociale, è un primate, per cui non si stupisce affatto che i giovani sotto i 25 anni abbiano traumi profondi nell’imposizione del lockdown. E ancora, i bambini sanno bene chi è realmente in presenza e chi è invece virtuale nelle relazioni umane: e ai piccoli non importa chi sta in una altra città e lo vedono via WhatsApp, vogliono la persona in presenza. Vogliono essere toccati, perché il primo linguaggio conosciuto è il tocco, e anche l’ultimo: le aree del cervello preposte al tocco subiscono un deterioramento cognitivo più lento di quelle preposte al linguaggio. Ecco che, per esempio, quando ci si relaziona a persone molto anziane il tocco è importantissimo nel dar loro sicurezza, nel comunicare vicinanza – cosa che, sottolinea, è drammaticamente mancata in questo periodo di emergenza COVID-19.
Di fatto il nostro cervello non è ancora pronto per stare con l’altro a distanza. Nell’era del COVID-19 o post COVID-19 si dovrà per forza tornare a una mediazione tra contatti in presenza – magari diventeranno human protected touch dove saremo più vestiti e mascherati – e contatti a distanza: questi avatar sono la negazione della nostra animalità di clan, e invece, noi essere umani, a seguito della prolungata solitudine, spesso azioniamo istintivamente il cervello limbico o rettile, quello che attacca o fugge.
Va presa quindi la consapevolezza che non si è uniti a distanza, uniti ma distanti, far but together per non ingannarci a furia di slogan: il dato preoccupante di marzo e aprile è che il numero di infarti in Italia è raddoppiato, non solo per scarso accesso alle cure ma anche a seguito della solitudine come cofattore.
E allora come aggirare il problema, avendo fatto chiarezza che comunque l’esserci in presenza aumenta le possibilità di un contatto empatico (malgrado abbia ragione Greenhalgh, meglio un curante empatico a distanza che un medico algido e minaccioso in presenza)? Come diventare più empatici verso una migliore cittadinanza digitale? Prendiamo spunto dalla pedagogia: uno studio dell’UNESCO di dicembre del 2019, condotto dalla South Asia Pedagogic Association, Digital Kids Asia Pacific, su alunni in Bangladesh, Fiji, Corea e Vietnam ha rilevato che gli studenti digitali in Corea avevano il punteggio medio più alto sull’intelligenza emotiva digitale, un indicatore di empatia (3,22 su 4), mentre rispettivamente gli studenti in Fiji, Bangladesh e Vietnam avevano punteggi di 3,18 , 3,06 e 2,96.
I bambini erano autocoscienti, in grado di capire le proprie emozioni e pulsioni: tuttavia, gli studenti del Vietnam non erano così a proprio agio nell’esprimere liberamente i propri sentimenti online. Solo una piccola percentuale ha riferito di poterlo fare. Per “facilitare” l’empatia, sia gli insegnanti che i genitori hanno ricevuto il suggerimento di invitare ai bambini di comunicare le proprie emozioni e di parlare in modo mai non giudicante, allo stesso modo sia online che offline.
Poiché le persone di culture, background e personalità diverse possono rispondere in modo diverso rispetto alle altre, i bambini, i genitori e gli insegnanti devono essere in grado di comprendere senza giudicare i differenti approcci nei confronti degli altri utenti. Queste sono le basi per la realizzazione dell’empatia in una cittadinanza digitale. Se no passano solo informazioni cognitive, ma non si può creare un legame d’aula virtuale basato sulla fiducia.
La cittadinanza digitale non potrà andare in sostituzione ma solo in affiancamento alla cittadinanza reale, e questi sono alcuni spunti per invitare, durante una televisita, al fatto che il paziente si apra, che racconti la sua storia di vissuto con la malattia e non solo la sua cronaca “organo per organo”, che comunichi le sue emozioni. Le domande iniziali quindi saranno quelle classiche dell’ascolto empatico, domande aperte: Come sta? Come si sente? Cosa posso fare per lei? Queste sono regole da breviario minimo.
Seppur fautori dell’innovazione tecnologica e della robotica, e pur con tutte le accortezze del caso, la telemedicina non si dovrebbe sostituire alla comunicazione in diretta della imminente morte di un congiunto in caso di malattie non trasmissibili, come è successo per il Signor Quintana. Speriamo che il COVID-19 rimanga un’eccezione confinata e che i suoi lasciti siano la sburocratizzazione del sistema, l’evitamento di tante riunioni inutili, una serie di televisite utili, e la piacevolezza maggiore dello stare assieme – sempre mantenendo tutte le precauzioni. Abbiamo già una volta sperimentato quattro mesi di cervello programmato per la salvaguardia in uno lo spazio attorno a sé, tutto tranne che sicuro. Nella filogenesi, l’isolamento era una modalità precedente a quella gruppale che i mammiferi hanno sviluppato. E quindi ben venga, l’equilibrio tra cittadinanza reale e cittadinanza digitale, non la seconda dagli slogan facili – Siamo digital – a spiazzare la prima.