In occasione del convegno “Un nuovo umanesimo scientifico”, abbiamo intervistato il professor Gian Paolo Donzelli, neonatologo, Presidente della Fondazione dell’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze e Ordinario di Pediatria all’Università di Firenze. Abbiamo chiesto al professor Donzelli quali sono stati i principi ispiratori di un convegno che ha voluto far dialogare due aree di ricerca, la Medicina Narrativa e la medicina di precisione, nella convinzione che questo dialogo rappresenti una delle frontiere più interessanti della medicina contemporanea.
GD. Tra i principi ispiratori del convegno vi è la consapevolezza del limite in cui si è costituita la medicina in questi ultimi decenni: una medicina che ha prestato attenzione sempre più alla dimensione tecnologica, biologica e positivista della ricerca rispetto a una visione globale, olistica del paziente. Il mondo della diagnostica (pensiamo alla diagnostica per immagini, e ad altri elementi entrati nella dimensione della cura) ha portato la medicina a rinchiudersi ulteriormente nella sua “torre d’avorio”.
Ora bisogna “calare il ponte levatoio”: lasciare che le altre discipline si contaminino col sapere medico, mettere insieme l’osservatorio biologico-positivistico della medicina col mondo umanistico, creare un nuovo sapere che si basa sulla riflessione che il rapporto col paziente è il rapporto con la globalità della persona, in cui si studia l’armonia o meno delle parti.
Nella mia introduzione al convegno, “Perché siamo qui: l’emancipazione della cura”, uso “emancipazione” come traduzione dal latino emancipatio, ossia liberarsi dalla prigionia di una data realtà. In cosa si deve emancipare la medicina? Principalmente da due elementi. In primo luogo, dalla “prepotenza” dell’errore cartesiano: cioè il dualismo mente e corpo, ancora imperante nella dimensione della cura. In secondo luogo, dal pragmatismo biologico: oggi la cura si articola quasi esclusivamente nella presa in carico di sintomi relativi a un singolo organo o apparato, ma senza che la malattia venga inserita in un contesto generale, in un ambiente di riferimento.
Paradigmatici sono i protocolli e le linee-guida. Ma le linee-guida che tengono conto della stratificazione delle patologie e non dei singoli pazienti come se questi fossero tutti uguali, così come sono state applicate, non hanno raggiunto gli obbiettivi attesi: hanno aumentato la spesa sanitaria, i contenziosi medico legali e il ricorso alla medicina difensiva. Linee-guida e protocolli vanno ripensati e ricontestualizzati alla luce anche del portato conoscitivo delle scienze omiche e della medicina di precisione e della medicina narrativa.
Vi è una forte contraddizione del sistema, inteso come organizzazione sanitaria: esso ci invita a prenderci cura del paziente, ma poi non è flessibile nell’organizzazione reale delle cure. I tempi di ascolto non vengono contemplati nella prassi clinica, non viene dato spazio all’ascolto della narrazione della malattia e questa viene sempre più percepita come marginale: “at the corner of the experience”.
Il più delle volte la narrazione non viene considerata uno strumento professionale medico, ma solo una “benevola gentilezza” più o meno esercitata a seconda dell’importanza personale o sociale della persona che si ha di fronte.