Un contributo di Ubaldo Sagripanti, psichiatra
Lavoro a due passi da casa Leopardi, a mezzora di strada dalla mia e, ogni giorno, guido tra le colline del mattino per arrivare dai miei matti. Sono uno psichiatra. Oggi è una bella giornata ma surreale, lungo il solito percorso siamo in pochi e manca il trambusto mattutino delle scuole: niente code; incroci liberi; nessun vigile infreddolito ad alzare la paletta… Silenzio!
Proseguo stupito e senza fretta, come un turista straniero dentro al Pantheon, comprendo che arriverò prima del solito, la paura del virus ha sgombrato le strade e allargato il tempo a mia disposizione – Io ho paura del virus?! Non so, non ancora – e parcheggio. Tra noi si scherza, nessuno è stato toccato da vicino, qui, l’allarme sanitario si limita alle precauzioni dettate delle circolari del Ministero e sinteticamente significa: attenzione. La parola è sempre la stessa ma non chi la legge ed è allora che cambia forma.
Forma e significato. Si vede chiaro dagli occhi prima che parlino da un volto libero; da sopra la mascherina; da mascherina guanti e cuffia; da un metro di distanza o da tre. I miei matti no, loro hanno gli occhi di sempre, anzi, sentono meno la differenza dagli altri adesso che la paura è un bene comune, e tra noi, c’è più confidenza del solito – vorrei tanto fumare una sigaretta con loro, ho smesso da molto ma oggi ne ho davvero una voglia terribile: matti, tabacco e dita gialle sono quasi una cosa sola – ci sentiamo più vicini, oggi, io e i matti, se si può. Il mio Servizio si trova nel vecchio ospedale di Recanati ormai trasformato in poliambulatori, uffici, un punto di Primo Intervento ed altre offerte di salute: mi faccio un giro.
Normalmente lungo i corridoi affollati bisogna fermarsi, chiedere permesso, scansarsi, avere pazienza e proseguire come sempre, ma oggi ci si potrebbe giocare a pallone; non c’è quasi nessuno. Mi fermo in portineria, abbiamo tempo, mi dicono che la gente chiede informazioni per telefono ma non viene: stanno tutti a casa. Passo anche al Servizio di Emergenza: sala d’attesa vuota; mascherine abbassate sul collo; giovane dottoressa che guarda fuori; autisti del 118 che parlottano poggiati alle ambulanze.
La paura della gente è come la neve: cade e fa tutto bianco, senza spigoli, soffice, freddo e silenzioso – ho sempre più voglia di una sigaretta – oggi che nevica tanto anche col sole, anche se sembra già primavera e le mimose schizzano giallo sui giardini. Qui a Recanati alcuni sostengono che Giacomo Leopardi venisse spesso da queste parti e che forse la famosa siepe dell’infinito fosse qua, in un angolino sul retro dell’ospedale, dove ora ci sono le cucine. È un luogo appartato da cui il panorama è stupendo, e l’acutezza del paradosso di quella siepe che lo escludeva allo sguardo del ragazzo, penetra l’anima. È un rifugio dove il Silenzio è sovrumano e dolce – avevo bisogno di ristoro dal silenzio ghiacciato della paura che nevicava ovunque – la siepe di Giacomo non c’è più, allora, chiusi gli occhi al panorama, lascio la pelle al tepore del sole e concedo il breve abbandono. Ringrazio il ragazzo gentile ancora una volta e torno al lavoro.
Buon naufragio a tutti
Grazie Ubaldo, a mio parere, la poesia dice sempre molto del nostro sentire.
Se è una poesia che ci appartiene culturalmente, ci si intende in un attimo.
Io vorrei stare in casa come se fuori ci fosse una nevicata che attutisce suoni e impegni, ma andrò al Centro Psico Sociale dove mi aspettano colleghi e pazienti e anche oggi indosserò un camice bianco per proteggermi.
Mai messo un camice in tanti anni di lavoro in psichiatria!
Come Educatore non è mai stato opportuno o necessario indossarlo.
Ieri tutti insieme, Medici, Infermieri, Assistenti Sociali, Terp, Educatori, coi nostri camici bianchi ci siamo uniti per stare li al nostro posto di Operatori per la Salute mentale e
il naufragar si è un pò placato.
Monica Anghinelli, Ed. Prof.le UOP Gallarate