Un contributo di Danila Zuffetti
Prima del Coronavirus vivevo a Lodi, una tranquilla città borghese e provinciale, ricca di storia e di cultura, animata da tanti giovani che hanno voglia di cambiare le cose cercando di portare innovazione laddove si è ancora attaccati alla tradizione. Conducevo una vita normale ed ero quotidianamente alle prese con scuola, lavoro, studio e vita sociale. Frequentavo Codogno perché i miei zii vivono lì, la mia ginecologa anche e il mio responsabile proviene da quella cittadina.
Poi un giorno arrivò la notizia di un possibile paziente contagiato da questo strano Virus chiamato Coronavirus, che si trovava ricoverato proprio all’ospedale di Codogno. Un virus sconosciuto, se non sentito nominare attraverso i telegiornali per quello che stava succedendo in Cina. Da quel momento si è generato il caos. Il mondo sicuro in cui vivevamo non era più lo stesso. Nel giro di qualche giorno tutte le certezze che avevamo sono svanite e la nostra comunità è diventata oggetto di attenzione mediatica a livello internazionale. Poco più di un’influenza normale, dicevano. In realtà la situazione non era proprio come veniva descritta. Il numero di contagiati aumentava di giorno in giorno e in noi crescevano paura e preoccupazione. Scuole chiuse, dieci paesi in quarantena, palestre chiuse e restrizioni di ogni tipo, forse avvenute troppo tardi. Il virus si era ormai diffuso a macchia d’olio e molti casi venivano taciuti.
Vivo nell’incertezza quotidiana, come mamma, cittadina e come professionista presso una struttura sanitaria. Mi pongo domande, rispondo a domande e cerco di rassicurare gli altri cercando di rassicurare anche me stessa.
Mi sento spaesata e turbata. Sto cercando di andare avanti sperando che tutto passi. All’improvviso quello che sembrava così lontano, è diventato parte di noi. Vivo attuando le misure precauzionali che sono state consigliate, ma è tutto molto difficile e fa paura. Vedere la mia città deserta mi provoca tristezza e uno stato d’animo difficile da descrivere.
Lavoro ogni giorno a contatto con persone fragili che non possono vedere i propri cari se non per pochi minuti e al contempo mi chiedo se le misure attuate dalla nostra struttura siano abbastanza. Ma anche in questa situazione non si va d’accordo. Chi ritiene che ci sia allarmismo, chi invece giudica la situazione veramente grave.
Vorrei che questa emergenza passasse, vorrei che ci fosse onestà e chiarezza nelle informazioni. Vorrei tornare a vivere la mia città come ho sempre fatto, con le passeggiate nel centro storico dove vivo, con gli aperitivi nei bar e con le biblioteche aperte dove poter portare mio figlio.
Sto cercando di creare una rete di solidarietà attraverso amici, librerie e social network per fare in modo che le persone non si sentano sole e si sentano ascoltate.
Mi sento vicina a coloro che per anni sono stati discriminati per la loro provenienza. Forse, alla fine di queste giornate così caotiche ci renderemo conto del bisogno di ritornare al sacro, al corpo, alla natura e ad una parola che ci rimetta in connessione con l’altro, mai così alieno come in questo momento.