Con piacere presentiamo un’intervista a Mario Pappagallo, giornalista che si occupa di informazione medico-scientifica dal 1980, direttore responsabile di URBES magazine, presidente dell’European Urban Health Communicators Network (EUHCNET) e vicepresidente di Web Health Information Network (WHIN).
D. Quali elementi hanno caratterizzato la comunicazione dell’emergenza ai cittadini allo scoppio della pandemia da Sars-Cov-2 in Italia?
MP. Già agli inizi, l’OMS aveva dato l’allarme di un rischio infodemia, ossia un’epidemia di informazioni, che in Italia ha avuto la massima espressione allo scoppio della pandemia da Sars-Cov-2.
Sia i quotidiani che i social network avevano iniziato a dare delle notizie, seppur confuse, ma cercando di fornirle il più correttamente possibile: la mia sensazione è che vi fosse una ricerca di informazioni, ma che si cercasse, al contempo, di non mettere in giro fake news. Normalmente succede il contrario; invece, c’è stato un silenzio assoluto degli esperti di disinformazione in Italia. Le fake news sono partite dall’estero, leggermente più tardi; alcune sono state alimentate dagli Stati Uniti, ad esempio quelle relative alla genesi del coronavirus, o dei metodi per prevenirlo e curarlo. Si è visto di tutto, comprese delle morti per gargarismi alla candeggina o da intossicazione.
Bene o male, però, in Italia non è accaduto nulla di tutto questo, pur leggendo di tutto e di più. Vi sono state delle informazioni che giravano intorno a dei possibili rimedi, ma erano informazioni innescate comunque dal mondo scientifico (pensiamo alla discussione sul farmaco per la malaria, ad esempio, o altri farmaci facilmente reperibili). L’informazione su giornali e social italiani, nella cosiddetta prima fase, è stata abbastanza corretta, poi però è accaduta una cosa strana, anomala: si è scatenata una rincorsa al presenzialismo, al protagonismo, da parte degli esperti in infettivologia, malattie respiratorie, virologia, immunologia.
Il protagonismo era indotto dal fatto che questi esperti andavano in televisione, rimbalzavano poi sui social, e hanno quindi cercato di comparire il più possibile; in Italia, vi è stata la comparsa di un numero eccezionale di esperti, rispetto ad altri paesi. Ed è stato questo protagonismo a creare una infodemia in Italia: un susseguirsi di informazione e controinformazione, proveniente dal mondo scientifico, che ha confuso l’opinione pubblica. Pensiamo al dibattito sulla mutazione o sulla “fine” del coronavirus in seguito al lockdown, a quello relativo all’utilizzo delle mascherine.
Un’altra caratteristica della comunicazione nella prima fase della pandemia è stata la presenza della politica: la discussione tra governo e Regioni era fortemente influenzata dallo schieramento politico di appartenenza, così come la discussione sui social.
In generale, il coronavirus ha pesato politicamente, e non solo in Italia. Il peso della pandemia – e del non controllo della pandemia – è ancora evidente negli Stati Uniti. Qui, tuttavia, la divergenza non era tanto tra gli scienziati, quanto tra la politica e la scienza: il tentativo di silenziare il CDC, le liti tra Fauci e Trump sono comparsi sulla scena politica e mediatica. Inoltre, a livello mondiale, la paura di perdere soldi, dell’abbassamento del PIL, insomma tutto ciò che concerne la sfera economica è stato oggetto di informazione, di paura, di agitazione, senza tener conto che siamo una realtà globale: Questo aspetto, più che dall’Italia, è stato toccato con mano dalla Svezia, che ha scelto di non imporre un lockdown nazionale per non penalizzare l’economia, pensando al contempo di raggiungere la cosiddetta immunità di gregge: oggi, in Svezia sono fallite sia l’immunità di gregge che l’economia, dal momento che le esportazioni sono state bloccate. Questi sono discorsi, dunque, che bisognerebbe fare in un’ottica internazionale.
D. Come è cambiata la comunicazione durante la “seconda ondata” da un punto di vista scientifico, politico e di opinione pubblica?
MP. Nonostante le dispute tra alcuni esperti siano proseguite, la seconda fase è stata caratterizzata da una maggiore calma dal punto di vista politico: gli schieramenti politici si sono leggermente smorzati, ma gli errori strategici sono emersi in modo più evidente. Il peso che hanno avuto i tagli fatti alla sanità in alcune Regioni è innegabile, e correre subito ai ripari – anche data la tortuosità della burocrazia italiana – è molto difficile: ancora non si trovano gli anestesisti, non si trovano i posti letto. A mesi di distanza dalla prima ondata, abbiamo trovato alcune Regioni del tutto impreparate: quello che è successo nella prima ondata nelle Regioni del Nord non è stato né colto né organizzato, dal punto di vista sanitario, in quelle Regioni che erano state meno impattate. Molti dubbi sono passati sotto silenzio, come la ristrutturazione delle terapie intensive dopo gli anni dello scoppio dell’AIDS. Invece, questi dubbi avrebbero potuto essere analizzati meglio per arrivare preparati alla seconda ondata, che oggi vede una cura dei contagi in calo, ma una maggiore mortalità: eppure, durante l’estate ci raccontavano che il virus fosse morto.
È proprio alla fine della prima ondata che iniziano a crearsi delle vere e proprie fake news, che vengono addirittura colte dalla stampa “ufficiale”, che a volte è apparsa carente nelle verifiche. Per fare un esempio, recentemente si è diffusa la notizia che la Cardiologia del San Camillo di Roma avrebbe chiuso per il contagio di infermieri e medici del reparto; in realtà, i malati tra il personale c’erano, ma non in numero tale da far chiudere la Cardiologia – eppure, la notizia è stata ripresa da un noto quotidiano ed è rimbalzata sui social, creando disinformazione.
In questa seconda ondata, dunque, siamo incappati in quello che in Italia non era accaduto nella prima: ossia, gli errori di informazione. Sono emersi in maniera più netta i negazionisti, che sostengono che il coronavirus non esiste; sono ricomparsi i No Vax, che nella prima ondata erano rimasti silenti. Va detto che gli annunci e i contro-annunci operati dalle case farmaceutiche che stanno lavorando ai vaccini contro il coronavirus stanno influendo, in questa epidemia, più che nelle precedenti, e questo è evidente a livello di transazioni finanziarie: se chi è corretto opera correttamente, è anche vero che abbiamo assistito a giochi spregiudicati nel mondo farmaceutico. Allo stesso tempo, assistiamo a una vendita esorbitante di prodotti e apparecchi di sanificazione, di cui nessuno scrive dal punto di vista scientifico; arrivano gli smartwatch, che possono rilevare pressione, battito cardiaco e ossimetria: ma chi li ha controllati e approvati?
D. In base alla sua esperienza, cosa è andato bene in questa comunicazione ai cittadini e cosa, invece, si sarebbe potuto fare diversamente?
MP. La mancanza di uniformità di informazione ha rappresentato uno dei problemi principali dal punto di vista della comunicazione; probabilmente, chiamare in causa nel comitato tecnico-scientifico dei giornalisti esperti di comunicazione medico-scientifica – oltre ai già presenti addetti stampa, che però riportano quanto viene detto, non lavorano sui contenuti – avrebbe aiutato ad andare in questa direzione, così come una comunicazione meno “dirompente” da parte degli esperti del mondo scientifico ed epidemiologico avrebbe smorzato il movimento di informazione e controinformazione.
Per quanto riguarda altre professionalità che avrebbero potuto essere chiamate in causa, gli esperti di urbanistica sono stati del tutto assenti nel dibattito italiano, al contrario di quanto è successo negli Stati Uniti e nel Nord Europa: New York, per fare un esempio, è una città che si sta ridisegnando, in cui gli urbanisti stanno creando più spazi aperti, una nuova mobilità, bar e negozi si proietteranno sempre di più verso l’esterno. Gli architetti stanno progettando la città anti-pandemia del futuro, in cui ripristinare il verde, zone in cui può circolare l’aria. In Italia, c’è qualche approccio a Milano, ma non c’è una linea politica, e per lo più questo è un tema che per il momento passa sotto silenzio.
Sarebbe stato opportuno interpellare gli scienziati sociali in merito ai danni della pandemia sulle comunità così come sulla salute mentale: ci sono difficoltà sempre maggiori a livello individuale, di convivenza e di coppia.
C’è stata, insomma, una grande attenzione ai discorsi scientifici, ma quella intorno agli elementi organizzativi e sociali è stata scarsa.
Rimane però la questione che, come popolazione, abbiamo una scarsa cultura scientifica, una formazione molto bassa in tema di biologia, scienze, statistica. Abbiamo la tendenza a informarci su internet, ma poi non sappiamo interpretare quello che leggiamo. Ritengo che, allo stesso tempo, servirebbe un albo per chi scrive di sanità e scienza sul web, di modo da dare un’indicazione alla popolazione riguardo a chi ha le basi per scrivere in modo corretto e chi invece dà un’interpretazione distorta o errata. Questo avrebbe dovuto essere fatto da tempo, non adesso, ma nessuno ci ha mai pensato. Il giornalista è il giornalista, ma sul web non scrivono solo i giornalisti: quindi, quanti di quelli che attualmente scrivono sul web fanno riferimento alla deontologia professionale?
Va riconosciuto che scrivere di medicina e scienza è penalizzante per i giornalisti stessi, anche in termini economici: e se questa è una strada in salita, quante probabilità abbiamo che tutti facciano verifiche anche costose? Pensiamo ad esempio al costo degli abbonamenti alle riviste scientifiche e di settore. In mancanza di giornalisti specializzati, la tendenza è quella di riportare i virgolettati degli esperti, ma così torniamo al punto di partenza: se l’esperto esprime un pensiero parziale, riportarlo senza verificarlo e contestualizzarlo crea una bolla, crea quel movimento di informazione e controinformazione di cui parlavamo all’inizio.
In definitiva, questo meccanismo mina anche la credibilità della scienza: se due esperti si mettono “l’un contro l’altro armato”, il primo danno viene fatto proprio alla scienza, a tutto vantaggio dei negazionisti, dei complottisti e di chi crea disinformazione.