Elena Vavassori è Medico Anestesista-Rianimatore presso la Fondazione Poliambulanza Istituto Ospedaliero di Brescia. Da alcuni anni si occupa di medicina narrativa e ultimamente si interessa di medicina tradizionale cinese, in un connubio di saperi e interessi sempre alla ricerca del contatto con l’umano.
Quale è stata la sua esperienza in questo anno di Covid-19?
Durante la prima ondata l’ospedale è stato travolto dalla pandemia e sono state sfruttate tutte le possibilità per accogliere i malati da Covid-19: normalmente abbiamo sedici posti in terapia intensiva, ma la scorsa primavera ne contavamo più di ottanta, considerando i letti della terapia intensiva polifunzionale ordinaria e quelli ricavati dallo spazio della vecchia terapia intensiva. L’ospedale ha inoltre bloccato tutti gli interventi e quindi convertito gli spazi di sala operatoria in letti di terapia intensiva.
Quel periodo è stato faticosissimo perché eravamo completamente sommersi dall’esperienza, con turni continui da dodici ore, accumulando una grande fatica fisica, mentale e emotiva, dovuta soprattutto al fatto che intorno a noi le persone morivano. A questo tipo di esperienza non siamo abituati pur essendo anestesisti-rianimatori e lavorando in situazioni, in terapia intensiva o in sala operatoria, di urgenza o emergenza: la presenza della morte così massiccia ha sconcertato tutti.
Non c’erano, poi, i parenti. Normalmente in Poliambulanza i parenti possono stare in terapia intensiva dal mattino alla sera, a contatto con loro cari, ma questa cosa il Covid-19 l’ha abolita. La possibilità, quindi, di sapere come stavano i propri cari era legata a una telefonata al mattino in cui si doveva raccontare come era andata la notte: raccontavi anche che il malato stava male e tu con le tue parole dovevi far immaginare la situazione alla persona all’altro capo dal telefono, che tu non conoscevi e che non ti conosceva. La tua voce era l’immagine di quello che stava succedendo e cadeva dall’altra parte in un silenzio di ascolto e attesa di buone notizie che il più delle volte non arrivavano. Mi è capitato di telefonare a casa per annunciare la morte di un paziente. Dopo qualche minuto, mi ha ritelefonato il figlio ringraziandomi per tutto quello che stavamo facendo. Questa cosa mi ha lasciato molto perplessa perché al comunicare di una morte era corrisposto un ringraziamento: perché? Non lo so perché… forse perché effettivamente la percezione della gravità di tutto e che i sanitari stessero facendo il possibile era molto forte in quel periodo.
Abbiamo dimesso l’ultimo paziente dalla terapia intensiva a luglio e quindi gradualmente abbiamo ripreso l’attività normale. Per la seconda ondata la situazione è un po’ diversa perché ci sono due terapie intensive destinate ai pazienti Covid-19 che sono tutte occupate, ma è rimasta libera per i pazienti non-Covid-19 la terapia intensiva polifunzionale, dal momento che sono rimaste attive le sale operatorie. Io la ritengo una cosa corretta: per me, si tratta di una questione etica. Le sale operatorie sono dedicate a pazienti oncologici, alle urgenze ed ad altre situazioni di cui non si può ignorare l’esistenza. Io e i miei colleghi siamo quindi ad oggi impegnati su questi fronti.
Quali sono state le sensazioni e le risposte della mente e del corpo a questa situazione anomala?
Dal punto di vista fisico, una stanchezza estrema. Tornavi a casa, mangiavi, due parole con chi c’era a casa e poi alle volte crollavi sul divano, altre facevi fatica a dormire.
Abbiamo, però, trovato anche la forza di fare un lavoro di medicina narrativa: attraverso il metodo del racconto semi-strutturato abbiamo raccolto testimonianza del vissuto dei colleghi, dell’esperienza di essere medico prima e dopo il Covid-19. È venuto fuori un bel lavoro, per quanto le storia che abbiamo raccolto non fossero tantissime. È emersa la sofferenza dei colleghi e con essa la difficoltà percepita e il tentativo di superare questa difficoltà, legata al fatto che le conoscenze che la scienza medica, che quindi erano le conoscenze di ciascuno, non bastavano. È vero che in terapia intensiva le persone sono sempre in una situazione delicata, ma il numero di morti giornalieri in tempo di Covid-19 era davvero pesante da sopportare.
Come ci si pone e agisce davanti a qualcosa di sconosciuto? E quale è stato il ruolo del gruppo nel far fronte all’emergenza?
Dal punto di vista terapeutico importante è la terapia ventilatoria e l’utilizzo di farmaci come antibiotici, cortisonici ed eparina. C’è poi da prestare attenzione alle complicanze e al weaning respiratorio, così da consentire la ripresa della ventilazione spontanea nel paziente dapprima sottoposto a ventilazione meccanica. Rispetto alla prima ondata seppur sconcertati, ci siamo sentiti più preparati agli accadimenti. C’è sempre stata una buona strategia di copinge di gestione del fattore inatteso: per far fronte all’enormità che ci aveva travolto ciascuno ha messo in campo sé stesso in modo che le carenze o difficoltà di uno (emotive, personali, scientifiche che fossero) venissero accolte (mai giudicate) da un altro con le sue conoscenze e capacità. Si è creata dunque una catena di conoscenze collettiva che ha permesso di superare le situazioni più difficili e complicate, che riguardassero il malato o il medico o i familiari. Penso spesso all’immagine dei cerchi olimpici: tutti uniti, cerchi che contengono e non lasciano andare. Nessuno si è sentito solo perché si è costituita una catena umana di aiuto, a se stessi, all’altro, ai pazienti, ai parenti. Lavoravamo sempre nel tentativo di trovare un equilibrio e trovarlo è stato la forza del gruppo.
Bisogna sempre pensare anche all’altro piatto della bilancia, al “non-Covid-19” che è un’uguale sofferenza: ci sono persone che soffrono perché devono affrontare un intervento, magari anche importante, e non c’è nessuno dei loro cari con loro, perché il Covid-19 tutt’ora lo impedisce. C’è quindi questa sofferenza, questo desiderio non esaudito delle persone di avere qualcuno accanto. È importante dunque occuparsi anche di chi non ha il Covid-19, che è comunque un malato: anche quella è Salute!
Come pensa sia cambiata la percezione da parte delle persone della categoria degli anestetisti?
Ricordo che una sera uscendo dall’ospedale c’era uno striscione con scritto “grazie per quello che fate: siete degli eroi” e mi sono emozionata un po’ perché non me l’aspettavo e un po’ perché non mi sentivo un eroe. C’è stata questa metafora dell’eroe che combatte il nemico, ma noi non siamo eroi, il nostro mestiere è fare la cosa migliore per il paziente in caso di emergenza, ossia lavorare nel modo migliore. Credo che questo l’abbiamo sempre fatto, sia in tempi di Covid-19, sia in tempi precedenti al Covid-19 e lo continueremo a fare.
All’interno dell’ospedale, in Poliambulanza, siamo sempre stati ben considerati come anestesisti perché ci mettiamo al servizio della comunità ospedaliera in tutti i sensi, al servizio dei pazienti, dei chirurghi, delle necessità dell’ospedale, e questo è lo spirito del Poliambulanza: un servizio verso l’altro. All’esterno mi sento spesso dire «come va», «come ti senti», «state facendo tante cose belle», «complimenti», «meno male che ci siete voi», e penso che non siano cose dette in sordina, ma credo che le persone nel loro animo capiscano che noi ci siamo e siamo importanti, come medici, come rianimatori, come anestesisti.
Che cosa ha dato e che cosa ha perso in quest’anno?
Penso di aver dato e dare tutto quello che ho sempre dato, non mi sono sentita diversa dentro. Mi sono sentita affaticata certamente, con la necessità di imparare delle cose mentre le fai. Ho dato molta della mia vita, delle mie ore, della mia stanchezza, del mio sonno.
Ho preso di più, non c’è dubbio su questo. Abbiamo capito tutti in questa storia che non siamo onnipotenti: la malattia e la morte da Covid-19 ci hanno insegnato ad essere più umili ed ancora più attenti alle persone, alle loro paure. La medicina narrativa in questo mi ha molto aiutato in quanto la ritengo un’enorme fonte di energia che apre la mente e il cuore; e credo di aver trovato anche la forza e il tempo per fare il progetto grazie a questa energia. E sono grata di aver trovato dei colleghi disposti a parteciparvi. Insomma, ho dato molto ma ho preso di più.
Quanto al perso, credo di non aver perso niente per strada, non mi sento defraudata di niente, forse perché mi è sempre piaciuto il mio lavoro, è sempre stato un lavoro arricchente, anche nei momenti brutti. Anche la stanchezza fisica alla fine si recupera… Una cosa che ho imparato fin da quando andavo a scuola è a cercare delle risorse, delle energie che mi portino a superare dei momenti personali e lavorativi difficili. Quindi mi sento di dire che non ho proprio perso niente.
Vuole dirci qualcosa del suo progetto di medicina narrativa? Qualcosa che l’ha colpita.
Il progetto di medicina narrativa è partito dalla domanda: «come vivo e come vivono i miei colleghi questa pandemia dentro loro stessi», indagare cioè se ci sentissimo diversi in quanto medici prima e dopo il Covid-19. L’incipit era «ho fatto il medico perché…» e nelle narrazioni è emersa una continuità: “ho fatto il medico perché volevo curare la gente”. Una collega si è rifatta alla canzone di Fabrizio De André Un Medico [«Da bambino volevo guarire i ciliegi / quando rossi di frutti li credevo feriti / la salute per me li aveva lasciati / coi fiori di neve che avevan perduti», N.d.R.] raccontando comequesta canzone l’abbia accompagnata nella sua scelta di fare il medico.
Riguardo all’esperienza della pandemia da Covid-19 scriveva un collega: «intorno a me ho visto perdersi tutte le certezze»; un altro: «ho sperimentato lo sconcerto della sensazione di inutilità assoluta del mio operato». Questo era il modo in cui si percepiva la situazione, anche perché come tutti gli ospedali avevamo risorse limitate… Interessati anche le numerose metafore di appartenenza, per citargliene qualcuna: «remare tutti nella stessa direzione», «nessuno è stato lascito indietro», «nessuna lacrima non è stata asciugata». Questo scalda il cuore e ti permette di sperare nel futuro.”
La Peste di Albert Camus ha costituito una sorta di filo rosso all’interno di questo lavoro di medicina narrativa. Un romanzo di estrema attualità. Una frase, quella conclusiva, così recita: «Rieux decise allora di redigere il racconto che qui finisce […] per dire semplicemente che quello che s’impara in mezzo ai flagelli è che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare». Frase a mio avviso straordinaria in questo tempo, eroi o non eroi che si sia.
Semplicemente grazie