Le chiederei gentilmente di presentarsi.
Sono nato in provincia di savona nel 1952. Ho fatto il liceo classico, poi medicina e mi sono quindi specializzato in igiene e tecniche ospedaliera e poi ancora in igiene e sanità pubblica. Fin da subito ho intrapreso un percorso improntato all’organizzazione sanitaria. Ho lavorato in ospedali piemontesi per parecchio tempo facendo l’ispettore, il vicedirettore e il direttore sanitario. Sono stato coordinatore sanitario fino al 1995, quando sono stato nominato direttore generale all’ASL di Biella e da lì ho sempre fatto il direttore generale di aziende ospedaliere sanitarie AGENAS, poi il direttore della sanità della regione Piemonte e in ultima il direttore generale dell’ASL unica della Sardegna, accorpando 8 ASL. Quando poi nel 2019 sono andato in pensione dal mio ruolo, ho iniziato attività di formazione e consulenza aziendale con una mia società che si chiama Fucina Sanità.
Insomma, potrei dire che “conosco il maiale dalla coda alla testa” e quindi lo posso “macellare”, espressione non mia ma di un collega toscano, per dire che conosco la sanità dalla prima operatività ai vertici.
Qual è oggi il rapporto tra pubblico e privato nella sanità italiana? Qual era la situazione prima della pandemia e cosa è cambiato con essa?
Le regole ci sono, ma è forse un po’ debole la capacità del pubblico nel definire i compiti degli uni e degli altri. La funzione di tutela e di governance a mio parere deve per forza essere pubblica. Pubblica deve essere il controllo del contesto, della qualità, dell’efficienza e dell’efficacia, anche dei privati. In particolare, è importante la verifica della qualità delle cure erogate e che non si selezionino le patologie, nell’idea che alcune prestazioni siano più remunerative di altre.
Prima della pandemia era così. Sotto la pressione dell’urgenza e dell’emergenza, tra il 2020 e il 2021, sono state fatte alcune cessioni di attività non solo a enti privati accreditati, ma anche a varie altre società. Inoltre, prestazioni fin anco di pronto soccorso sono state “appaltate” a cooperative di professionisti o aziende private Spesso con poca verifica sulla qualità. Durante l’emergenza non si poteva tanto guardare per il sottile, ma oggi occorrerebbe che pian piano, la questione sia un po’ più governata .
C’è chi parla di partenariato e chi di sussidiarietà tra pubblico e privato in ambito sanitario – qual è il suo pensiero a riguardo?
Il privato preferisce parlare di partenariato. Molto pubblico, invece, preferisce mantenere la priorità anche nell’erogazione e l’intervento del privato solo come corollario. Personalmente, penso che quello che deve essere difeso sia il sistema di tutela e garanzia dell’universalità della prestazione.
L’erogazione della prestazione deve essere predefinita nel fabbisogno, quindi tutti i sistemi tariffari (DRG) predefiniti nei volumi attesi, altrimenti si potrebbe correre il rischio di ipertrofia prestazionale.
Io sono perché il pubblico presidii con forza la programmazione, ossia la definizione di ciò che serve ai cittadini in senso generale. Poi nel campo dell’erogazione, io non mi scandalizzo sul partenariato paritario.
Paradossalmente, in alcuni casi, sarebbe meglio che il pubblico non erogasse prestazioni, visto che lo fa in maniera inefficiente e spesso poco qualitativa. Perciò, piuttosto che pagare un pubblico inefficiente e un privato accreditato, varrebbe la pena di rivedere il mix prestazionale.
Il problema è capire se siamo capaci di definire ciò che serve e una volta affidato a un erogatore privato o anche a uno accreditato, controllare che ciò sia fatto con appropriatezza ed efficienza ed efficacia. Questo è quello che spesso il pubblico non sa fare, non sa fare la programmazione e non sa fare il controllo. Una volta che la programmazione è corretta, che la definizione delle reti di offerta anche, se poi ad erogare effettivamente la prestazione è un privato, controllato efficacemente, io non sarei così preoccupato.
Come possono coesistere e bilanciarsi pubblico e privato all’interno della medesima azienda ospedaliera? Ci devono essere limiti alla penetrazione del privato nel pubblico? Qual è la sua esperienza a riguardo?
Nel 2004 ho creato una società che si chiama AMOS, che adesso è consorzio pubblico ma allora, quando nacque, era partita come società per azioni, 70% pubblica e 30% privata. Questa società ha oggi 2200 dipendenti, è consorzio pubblico, ma chi lavora lì ha contratti a tempo indeterminato della sanità privata o della multiservizi. Quindi, AMOS agisce operativamente come un privato, ma la proprietà è al 100% pubblica.
Oggi la società gestisce i laboratori analisi per gli esami automatizzati di tutto il sud Piemonte, tutti gli OSS di molti reparti delle aziende che lo compongono, ASL di Cuneo, ASL di Alba, ASL di Asti e ASL di Alessandria. Tutto il sud Piemonte, insomma, ha delegato delle attività a questa società.
Quando fondammo AMOS, citai John Kenneth Galbraith “socialismo nella proprietà e capitalismo nella gestione”. Infatti, per me il capitale sociale deve, in questo caso, essere pubblico perché dobbiamo tutelare il diritto alla salute e comprendere anche il diritto alle cure , come sancito dalla nostra costituzione.
La mia domanda è ma per erogare le prestazioni in maniera adeguata, dobbiamo per forza erogarla con dipendenti pubblici? Io dico no. Ci sono dei rischi a farle erogare a un erogatore autonomo e non controllato. Se esternalizziamo pulizie, cucina, lavanderia, stiamo delegando delle attività non sanitarie; se esternalizziamo il laboratorio analisi o la radiologia, stiamo esternalizzando attività non di assistenza diretta al paziente, ma attività di servizi sanitari (e ce ne sono di esempi in italia di esternalizzazione di diagnostica); se andiamo a esternalizzare, per esempio, il reparto di oncologia o di chirurgia dentro un ospedale, dobbiamo essere sicuri che non ci siano rischi di selezione di patologia in base alla più alta redditività .
Ovviamente questi sono dei temi molto delicati e che devono essere verificati con una certa prudenza.
Qual è il rapporto tra potere politico e il pubblico?
Il rischio è poi che la partitocrazia si impadronisca di queste operazioni. Infatti, nel pubblico, i direttori generali sono legittimamente scelti dalla giunta regionale, ma l’influenza del potere politico formalmente finisce lì. Il problema è spesso che la partitocrazia non si accontenta del direttore generale, ma vuole nominare anche il direttore sanitario e amministrativo che in realtà, per legge, sono di stretta competenza del direttore generale, quindi è lui che nomina quei due e non deve farsi condizionare da nessuno – se qualcuno lo fa, commette un reato. Nel momento in cui andiamo a nominare i direttori dei servizi, o i primari degli ospedali o dei capi dei servi sanitari, diciamo che la politica non c’entra niente. Il problema è che in casi non isolati alcuni colleghi “non tengono la schiena dritta”, per paura di essere rimossi, e obbediscono al potere politico anche per attività di loro stretta competenza
Il rischio è che i Direttori generale che controllano una società, si facciano condizionare al punto di nominare il consiglio di amministrazione o l’amministratore delegato, non di loro libera scelta, cercando di scegliere le persone migliori, ma un appartenente a uno schieramento o un altro, magari anche privo di competenze al riguardo. E il rischio lì diventa ancora più grande perché le tutele sulle società e le procedure sono molto più deboli. E c’è il rischio che si possa fare un danno.
Questo lo penso da cittadino della repubblica italiana e come amministratore di lungo corso: queste battaglie l’ho condotte sempre con una certa ferocia e sono sopravvissuto a tutte le giunte e governi. Però per fare questo bisogno dimostrare una forte capacità tecnica e dei buoni risultati, perché altrimenti il rischio di essere estromessi ovviamente sale. Ubbidendo, forse, uno è più protetto… Se vuoi non ubbidire, devi essere inattaccabile, bilancio a posto, prestazioni anche.
Quali sono i punti meglio funzionanti della collaborazione tra pubblico e privato? Quali sono invece da migliorare?
Come detto prima, non vedo limiti alla collaborazione. Ovviamente, quando il privato interviene nella sua sfera, le regole già ci sono e vanno solo fatte rispettare: programmazione, definizione di ciò che serve e controllo.
Altro discorso è se tu vuoi intervenire nel pubblico, e la norma questo non lo consente, se non dentro le sperimentazioni gestionali, ma nei servizi diagnostici, di laboratorio, ecc., questo è già operativo. Faccio un esempio, le risonanze: nel pubblico mediamente su una stessa macchina se ne fanno massimo una quindicina al giorno, nel privato se ne fanno 50-60. Qual è quello giusto?
Io quando feci partire la sperimentazione di AMOS, misi nell’accordo che ho fatto con la società che per altro controllavamo, che più di 25 al giorno non potevano farne, mettendo un limite di produttività, che può sembrare paradossalmente negativo. Come metodo di controllo della qualità, mandavamo le risonanze fatte dalla società controllata e le risonanze fatte dai dipendenti pubblici a due centri pubblici, uno a Milano e uno a Bologna per verificare l’appropriatezza della prestazione. Producevamo più dello standard pubblico, ma meno di quello privato, e senza discapito per la qualità prestazionale.
Il privato, in generale, produce molto più del pubblico, anche con le stesse risorse. Il nodo è cercare di verificare che questa efficienza non vada a discapito dell’efficacia e io credo che ci sia spazio perché ciò non avvenga.
Quali sono le differenze tra un ospedale pubblico e uno privato?
È profondamente diverso. In un ospedale privato, se si hanno i conti economici in perdita, come ce li hanno certi ospedali pubblici, vieni licenziato. Invece, nel pubblico, se appartieni alla categoria degli “obbedianti” anche se perdi 100milioni all’anno, vai bene lo stesso. Qui c’è già una prima differenza radicale: i conti nel pubblico hanno molta meno importanza che nel privato. Di conseguenza c’è una differenza nei comportamenti. Nel pubblico se il direttore di un grande ospedale inefficiente si mette in testa di diventare efficiente, corre il rischio di essere fatto fuori, perché per diventare efficiente bisogna fare delle scelte gestionali che magari vanno a cozzare contro il sistema sindacale, politico dei poteri di vario tipo che si hanno dietro le amministrazioni pubbliche.
Nel pubblico si deve anche avere una capacità di relazione e negoziazione con i professionisti, perché sono più importanti che nel mondo privato, dove chi mette i soldi a un certo punto vuole (anche giustamente) comandare. Questa “libido” concentrata sull’efficienza, nel pubblico dovrebbe essere concentrata sull’efficacia, ma troppo spesso è concentrata sul consenso o perlomeno sul non generare dissenso.
Altra differenza è come i due settori si comportano in casi di necessità di assentarsi dal lavoro dei dipendenti. Faccio riferimento alla cosiddetta 104, ossia l’assenza dal lavoro per assistere parenti ecc., (norma giustissima); o la tutela della gravidanza (altro che norma giusta). Uno che lavora nel pubblico va in gravidanza anticipata quasi di default, solo volontaristicamente continua a lavorare anche nel primo mese di gravidanza, normalmente viene messo in aspettativa per gravidanza a rischio. Nel privato è esattamente l’opposto: a volte ti fanno lavorare anche se dovresti essere messo in gravidanza a rischio.
Questi strumenti giusti della democrazia, conquistati in tanti anni di battaglie nel pubblico, possono correre il rischio di essere abusati. Nel privato c’è il rischio opposto, ossia che anche diritti sulla carta scritti, non vengano poi riconosciuti.
Altro esempio: lo straordinario nel privato quasi non esiste.
Per il pubblico, bisognerebbe, secondo me, rivedere le regole di funzionamento rendendo l’operatività un po’ più efficiente. Il pubblico pecca di inefficienza, pur avendo spesso ottima efficacia e ottima qualità.