Andrea Serpi è HR & Disability Manager presso Adelante Dolmen.
Che cos’è Adelante Dolmen?
Adelante Dolmen è una impresa in forma di cooperativa sociale, ossia che, secondo la legge costitutiva n.381 del 1991, non ha scopo di profitto, ma una mission, appunto, sociale. Adelante Dolmen produce servizi per il mercato e favorisce la promozione del lavoro e l’inclusione per fasce svantaggiate di popolazione. La legge le indica in maniere precisa: condizioni di disabilità riconosciute, percorsi di detenzione, situazioni di tossicodipendenza e così via. Adelante Dolmen produce servizi nel settore dell’IT, nell’ambito dei servizi alle imprese, quindi attività di office, impiegatizie. Abbiamo contratti commerciali con le imprese e partecipiamo anche a bandi della pubblica amministrazione. Come ho detto, si tratta di una cooperativa sociale, con 25 anni di vita, fondata nel 1997. Oggi conta ottanta soci lavoratori di cui 50 sono persone con disabilità. Infatti, secondo la legge, le cooperative sociali devono avere almeno il 30% dei dipendenti appartenenti a una di quelle categorie di svantaggio sociale. Lo scopo è quindi quello di offrire un’occasione di promozione sociale, di pari opportunità a fasce di popolazione che altrimenti rischiano di rimanere escluse dal mondo del lavoro e quindi da un determinato status di cittadinanza.
Vi occupate quindi soprattutto di disabilità e lavoro – qual è la situazione in Italia?
Segnalo innanzitutto i dati indicativi del tasso di occupazione: quello assoluto in Italia è quasi del 58%, più basso di quello europeo che è del 68%; ma ancora più basso è quello che riguarda i lavoratori con disabilità, in Europa è del 50%, mentre il Italia è solo del 31%. C’è ancora molto da fare per aumentare il tasso di occupazione dei lavoratori con disabilità, ma questo è un problema di tutto il mercato del lavoro. Questo dovrebbe essere un dato di partenza per le politiche del lavoro in Italia e in particolare per quelle relative alle disabilità e al cosiddetto collocamento obbligatorio (oggi chiamato collocamento mirato) che agevola l’avvio al lavoro di persone con disabilità.
Il tema della disabilità dal mio punto di vista è un tema culturale, legato a una visione delle forme di quelli che un tempo si chiamavano handicap. Si tratta di una questione nata storicamente con le grandi guerre del Novecento che hanno creato una massa di popolazione con limitazioni e patologie. Ovviamente queste ultime nella storia sono sempre esiste, ma il tema ha acquisito grande rilevanza sociale con le grandi guerre.
Oggi rimane ancora molto da fare a livello culturale perché il tema della disabilità si porta dietro delle visioni molto stereotipate. Negli ultimi anni mi sembra che la sensibilità sociale e culturale sia cambiata, riguarda a come si vede la disabilità. Io questo fenomeno lo registro come un passo avanti, un successo a livello culturale. Penso che questo sia molto evidente in due ambiti: nel mondo dello sport, con le Paralimpiadi che hanno raggiunto una visibilità che prima non avevano e quindi hanno portato dignità allo sport paraolimpico del quale ormai si parla; l’altro canale è quello dei social e della comunicazione poiché le persone con disabilità hanno iniziato a parlare pubblicamente della propria vita e della propria quotidianità, del fatto di convivere con condizioni più o meno severe.
Tradizionalmente, della disabilità si parlava sempre in base a due polarità estreme: dei finti invalidi oppure dei supereroi. Nel mezzo, però, c’è una normalità di convivenza con una condizione difficile, che può comportare complicazioni nella vita di tutti i giorni. Negli ultimi anni invece noto una normalizzazione del discorso e del modo di parlare della disabilità. Molte persone sui social parlano della quotidianità, del fatto di convivere, e questo abbassa stigmi, pregiudizi e stereotipi. Permette insomma una maggiore conoscenza della disabilità come condizione di salute e di vita.
Secondo lei la narrazione è uno strumento di giustizia sociale?
Noi di Adelante Dolmen l’abbiamo conosciuta attraverso ISTUD e la ricerca che ha fatto nel 2019 su Disabilità e Lavoro. Il tema della giustizia sociale che è un tema enorme; posso dire che la narrazione come approccio riporta al centro la persona e la sua esperienza di vita e fa assumere valore al vissuto della persona. La narrazione permette di avere il punto di vista della persona rispetto al tema della disabilità e di contrastare gli stereotipi e i pregiudizi; aumenta quindi la conoscenza della condizione di un fenomeno e in questo senso accresce la maturità sociale sul tema e porta effettivamente a esiti di maggiore equità nell’affrontare le discriminazioni. Situazioni che prima esistevano ma non venivano affrontate, oggi vengono affrontate proprio in quanto vengono riconosciute come discriminatorie. Quindi in effetti, sì, l’esito è quello di una maggiore giustizia sociale.
Qual è stato il punto di vista di Adelante Dolmen sul progetto Disabilità e Lavoro? C’erano state sorprese?
Sorprese non ce ne sono state. È stato interessante venire a conoscenza dell’approccio della medicina narrativa per i punti di contatto che abbiamo trovato rispetto alle prospettive sulla disabilità. Posso esserci sguardi diversi sul tema, sociali o educativi o più strettamente medici. Il nostro punto di vista, legato soprattutto al lavoro come leva per creare pari opportunità e integrazione sociale, è del primo tipo. Noi come operatori sociali abbiamo quasi tutti una formazione pedagogica, quindi non strettamente medica o sanitaria e di conseguenza il nostro sguardo sulla disabilità è di tipo sociale e educativo. La medicina narrativa porta avanti un’idea di salute che è vicina a questo, che tiene conto della dimensione culturale, non solo del dato strettamente medico-biologico. Noi infatti guardiamo alla disabilità come una condizione di salute, ma anche inserita in un contesto sociale.
Ormai da una ventina d’anni il modello sulla disabilità approvato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità è il modello bio-psico-sociale che è alla base della classificazione internazionale del funzionamento delle disabilità. Questa classificazione tiene conto della globalità del senso di vita dell’esperienza di una persona. La disabilità non è più definita a partire dalle menomazioni come in passato, ma viene definita come condizione di salute nella interazione con il contesto. Questo sembra paradossale, ma per fare une esempio immediato, una persona in carrozzina con un livello di salute ottimale che vive autonomamente e lavora, è una persona per la quale la definizione di disabilità quasi scompare. È una persona che può accedere a tutte le opportunità offerte. Quindi c’è una condizione di salute e benessere all’interno di un’interazione bio-psico-sociale, quindi complessiva.
L’idea di affiancare la disabilità a una condizione di salute dice proprio che la salute nel corso della vita può cambiare, quindi è una condizione che può riguardare chiunque, non è un dato di nascita, segnato di partenza, ma è una condizione che ha una variabilità, che può modificare nei casi della vita o con condizioni più o meno favorevoli, infatti l’ICF, la classificazione del funzionamento, lavora e ragione sulle barriere e sugli elementi di vantaggio, a favore.
La narrazione diventa quindi uno strumento di giustizia sociale perché è quella che permette di capire dove stanno i nodi dei problemi che si presentato e di esplorare questo rapporto sempre relativo e relazionale tra l’ambiente e la persona, tra la salute e il contesto. Coscienza quindi soluzioni.
Per esempio la narrazione può svelare che la condizione di rischio di esclusione o sofferenza o di isolamento di una persona con disabilità, non è dovuta alla specifica patologia di cui quella persona è portatrice, ma può essere dovuta alle condizioni sociali, di vita, di mercato del lavoro, alle barriere che la persona incontra. Allora, la narrazione permette di svelare questo e in questo senso fa un’opera di giustizia sociale perché indica anche dove poter agire. Dal nostro punto di vista che lavoriamo sul tema lavoro, quando incontriamo le aziende, troviamo spesso barriere e stereotipi, mancate conoscenza o pregiudizi e nel momento in cui abbassiamo queste barriere o modifichiamo la percezione, allora creiamo le condizioni per un’integrazione lavorative. La persona con disabilità ha la possibilità di uscire dalla propria patologia – sto pensando a condizioni fisiche di capacità motorie o a limitazione sensoriali.