Proponiamo un’intervista a Susana Magalhães, Research Integrity Officer presso l’Instituto de Investigação e Inovação em Saúde – i3S (Università di Porto).
D. Quali sono I temi principali nel dibattito corrente in campo bioetico, dal suo punto di vista?
SM. Al giorno d’oggi, i problemi principali in Bioetica sono quelli che hanno a che fare con la distribuzione delle risorse naturali e umane secondo il principio di equità in un mondo che sta affrontando la crescita della popolazione e le società che invecchiano, la disumanizzazione dell’assistenza sanitaria, i dilemmi relativi all’assistenza del fine-vita, la genetica – e qui vorrei sottolineare le questioni etiche alla base dell’editing genomico. Principalmente, la biotecnologia e i suoi limiti sono discussi alla luce del binomio trattamento versus potenziamento. Spesso vi è un confine sfocato tra trattamento e potenziamento, e il rischio di un “pendio scivoloso” è reale.
Dal mio punto di vista, dovremmo affrontare anche cosa significa progresso: è un obbligo morale? Qui, mi riferisco a un articolo molto interessante scritto da Daniel Callahan prima della sua morte: Bioethics and the future: can progress be tamed? Callahan sostiene che la fede religiosa sia stata sostituita dalla fede nel progresso. Lasciamo quindi poco spazio alla discussione dei suoi aspetti dannosi e negativi. Nella storia della bioetica, i progressi sono stati messi in discussione: è stato il caso degli esperimenti sul DNA ricombinante, che hanno sollevato preoccupazioni sui possibili rischi biologici, portando alla Asilomar Conference e alla moratoria su questo tipo di ricerca, fino a quando i rischi avrebbero potuto essere chiaramente definiti e controllati. Più recentemente, nel 2015, la National Academy of Science, Medicine and Engineering ha pubblicato un documento con tre raccomandazioni incentrate sulla tecnica di CRISPR-Cas9:
- La ricerca di base e preclinica dovrebbe continuare;
- È supportata la modifica delle cellule somatiche;
- L’editing genetico per i gameti e gli embrioni umani è considerato inaccettabile.
Concordo con Callahan quando dice che dovremmo affrontare il significato del progresso, perché le parole che usiamo hanno un significato, e il primo passo della riflessione bioetica dovrebbero essere quello di chiarire termini e concetti.
L’assistenza nel fine-vita è un altro tema importante per la bioetica, a causa del potere della tecnologia di prolungare la nostra vita e di aiutarci nel fine-vita. Quali sono i limiti? Dovremmo tracciare dei confini relativi a quale sia il trattamento appropriato e quando le tecnologie dovrebbero essere sospese e permettere alle persone di “vivere la propria morte”
Credo che la bioetica non si interessi di fermare il progresso. Piuttosto, si tratta di riflettere su come e per quale scopo usiamo il nostro sapere; si tratta di umiltà, come ci ricorda Sheila Jasanoff:
We need disciplined methods to accommodate the partiality of scientific knowledge and to act under irredeemable uncertainty. Let us call these the technologies of humility. These technologies compel us to reflect on the sources of ambiguity, indeterminacy and complexity. Humility instructs us to think harder about how to reframe problems so that their ethical dimensions are brought to light, which new facts to seek and when to resist asking science for clarification. Humility directs us to alleviate known causes of people’s vulnerability to harm, to pay attention to the distribution of risks and benefits, and to reflect on the social factors that promote or discourage learning.
Policies based on humility might: redress inequality before finding out how the poor are hurt by climate change; value greenhouse gases differently depending on the nature of the activities that give rise to them; and uncover the sources of vulnerability in fishing communities before installing expensive tsunami detection systems. [1]
D. In che modo la medicina narrativa entra in questo dibattito? Quali sono le sue principali sfide e le possibili evoluzioni, dal suo punto di vista?
SM. Credo che le competenze narrative richieste dalla medicina narrativa – come l’attenzione, la rappresentazione, l’immaginazione, la ricerca del significato, la capacità di stabilire connessioni, di costruire una trama, la curiosità, la flessibilità del pensiero, l’apertura all’imprevedibile e all’imprevisto, la capacità di muoversi “avanti, indietro e lateralmente” – siano essenziali, non solo nell’ambito dell’assistenza sanitaria, ma anche nella riflessione bioetica.
Le competenze narrative richieste dalla medicina narrativa sono le stesse promosse dalla bioetica narrativa, che sta crescendo, perché più la scienza e le tecnologie avanzano, più siamo consapevoli della necessità di concentrarci sul contesto. Inoltre, la medicina narrativa – e ISTUD è un ottimo esempio di ciò che sto per dire ora – sia che si parli di pratica in sanità o di ricerca, fornisce un’utile fonte di dati, concentrandosi sull’individuo piuttosto che solo sulle statistiche e sul sistema, che sono generalmente attenzionate da manager, politici e decisori. La medicina narrativa ha un ruolo qui, perché ci ricorda il valore dell’integrità e la necessità di usare approcci olistici nella riflessione etica. La medicina narrativa ci impone di agire e comportarci in modo tale da rispettare questa totalità, sia che stiamo parlando del rispetto per gli esseri umani o degli obiettivi della buona scienza.
Penso che la grande sfida per la medicina narrativa sia persuadere i politici, i decision-makers e i dirigenti delle istituzioni sanitarie che questo approccio può effettivamente salvaguardare la qualità delle cure e un uso equo delle risorse. Quando meditiamo sugli aspetti etici dell’intelligenza artificiale, ci troviamo di fronte al problema di sostituire gli esseri umani con i robot. Solo promuovendo la capacità di stabilire relazioni non programmate, saremo in grado di preservare la traccia umana dell’umanità. Questo è il motivo per cui la medicina narrativa deve lavorare di pari passo con le ICT, che possono contribuire all’attuazione di questo approccio nel settore sanitario.
D. Perché è fondamentale trovare un consenso su definizioni e concetti utilizzati nelle cure palliative e nel fine-vita? Quali sono i rischi di confondere questi termini?
SM. In generale, direi che ciò è vero non solo per le cure palliative e il fine-vita, ma per tutti i settori sanitari. Solo un approccio olistico alla bioetica ci consente di rivisitare attentamente i termini e i concetti utilizzati nella cura, e in particolare nell’assistenza del fine-vita. Le parole che usiamo contano, fanno la differenza: il linguaggio modella il modo in cui vediamo la realtà, il modo in cui agiamo su di essa e al suo interno. Termini come futilità, accanimento terapeutico, mezzi ordinari o straordinari devono essere chiariti, se vogliamo usare la scienza e la tecnologia a beneficio delle persone e non danneggiarle.
La International Association for Hospice and Palliative Care (IAHPC) ha recentemente pubblicato una definizione di cure palliative come la cura attiva e olistica di persone di tutte le età, con gravi sofferenze legate alla salute a causa di malattie gravi, in particolare di quelle vicine al fine-vita. Tuttavia, non è sempre per quelli prossimi al fine-vita. Se non chiariamo questo aspetto, le cure palliative potrebbero continuare a essere percepite come uno strumento supplementare, cioè come una risorsa applicata solo nel fine-vita, che è chiaramente insufficiente. In effetti, le cure palliative dovrebbero iniziare alla diagnosi di una malattia grave che non ha cura, e che può durare anni. La IAHPC non ha solo emesso una definizione molto chiara di cure palliative con più sotto-argomenti, ma la preoccupazione per l’impatto di termini e concetti ha portato all’edizione di un glossario di termini, in modo che le persone possano capire meglio questo campo.
Nei team multidisciplinari, l’assistenza dovrebbe sempre includere una discussione dei termini e dei concetti utilizzati dai membri del team. Se la persona a cui si prende cura si rende conto che gli stessi termini o gli stessi concetti sono usati in modo diverso, il legame di fiducia tra il paziente e gli operatori sanitari può rompersi.
D. Cosa significa “autodeterminazione” nel contesto di cura?
SM. L’autonomia implica inquadrare la volontà nel proprio progetto di vita, e questo include l’altro, che dovrebbe trattarla non solo come un mezzo per raggiungere un fine, ma sempre come un fine in se stesso. L’autodeterminazione si concentra sulle preferenze individuali, indipendentemente dagli altri con cui si relaziona. L’autonomia implica che una persona sia in grado di comprendere le informazioni sulle sue condizioni di salute; è consapevole dei diversi elementi della sua condizione, inclusi non solo la malattia, ma anche il suo impatto sulla propria vita; è in grado di comunicare le sue preoccupazioni, i suoi dubbi, i suoi bisogni e di prendere decisioni ed esprimerle liberamente.
Credo che dobbiamo migliorare l’alfabetizzazione sanitaria in modo da poter dare a tutti il potere di comprendere la propria disease, illness e sickness. Ogni persona dovrebbe avere il diritto di rifiutare il trattamento, di capire cosa viene fatto, che tipo di medicina sta assumendo e di essere in grado di integrare i propri obiettivi all’interno di quelli del trattamento proposto.
L’autonomia è importante, ma non sarei a favore del fatto che gli operatori sanitari si lavino le mani e dicano “Sei autonomo, decidi”. Ecco perché ho detto che l’autonomia include sempre l’altro nel suo esercizio. Credo che il termine giusto sia autonomia relazionale, che è un pilastro della cura, insieme ai concetti di vulnerabilità e responsabilità:
Focusing only on autonomy renders invisible the fragility and vulnerability of the human condition, which means we all require care and respect. For that reason, a more complex concept of human autonomy is necessary, one that includes human vulnerability. In addition, it is important to realize that the focus on an unmodified principle of autonomy generates an individualistic and self-referential manner of understanding relations with others, which is especially problematic in the clinical context.(…) In the context of healthcare, relational autonomy implies more emphasis on the how healthcare professionals create conditions to facilitate and support the patient’s (and sometimes family) decision making process, instead of the patient’s right to decide, without considering the relationship between the health care professional and the patient when making decisions. While autonomy principle is understood as an ocassional moment that occurs when patients need to consent or accept a health care treatment or practice, relational autonomy is the result of a process in which the patient and the family is involved. [2]
D. Negli ultimi due anni, la storia dell’attivista Marco Cappato è stata al centro del dibattito italiano: nel febbraio 2017 Cappato è stato denunciato per aver accompagnato Fabiano Antoniani, rimasto tetraplegico dopo un incidente, per accedere al suicidio assistito in Svizzera – in Italia, il suicidio assistito è illegale. Lo scorso settembre, la Corte Costituzionale italiana ha esaminato il suo caso, dichiarandolo infine non punibile e invitando il Parlamento italiano a iniziare a lavorare su una legge su questo argomento. Secondo te, quale dovrebbe essere il ruolo della giurisprudenza riguardo alle scelte che le persone fanno sulla loro morte? Allo stesso tempo, quali sono le sfide per i professionisti sanitari?
SM. Senza concentrarmi specificamente su questo caso, direi che si tratta di una questione molto delicata. Non credo che la legge sarà mai in grado di risolvere situazioni simili. Ciò che è in gioco qui, è se il diritto alla vita comporta il diritto alla morte. C’è anche un’altra domanda, ovvero se il diritto di preservare la vita è uguale al diritto di preservare la qualità della vita. Preservare la vita non significa che stiamo preservando la qualità della vita. Il suicidio assistito e l’eutanasia sono diversi, ma alla fine pongono le stesse domande a tutti. L’eutanasia richiede che la persona sia in grado di capire cosa le sta accadendo, di valutare l’ambiente, le conseguenze e di chiedere a un’altra persona di ucciderla. Il suicidio assistito implica chiedere a un’altra persona di fornire i mezzi per porre fine alla propria vita. A mio avviso, la legge non può coprire tutte le possibili diverse circostanze di ogni singola persona e non può affrontare gli aspetti antropologici di questo problema. Penso anche che esista solo l’eutanasia attiva, perché se la persona non lo chiede, è un omicidio. Le parole contano.
Il problema è che tendiamo a evidenziare casi come quello sopra descritto, che sono già accaduti e sui quali non possiamo più fare nulla. Nell’assistenza sanitaria, discutere di eutanasia e suicidio assistito è come costruire una casa iniziando dal tetto anziché dalle pareti. Dobbiamo chiederci perché le persone pensano di porre fine alla loro vita quando sono malati. Innanzitutto, dobbiamo essere sicuri che la persona abbia ricevuto tutte le cure che desiderava, e sappiamo che questo non è vero nella maggior parte delle nostre istituzioni sanitarie. Molte persone vogliono morire non perché non vogliono vivere, ma perché non vogliono quel tipo di vita. Nessuna legge potrà mai dare una risposta adeguata a ciò che una persona soffre nel fine-vita. Solo unl’assistenza sanitaria compassionevole, basata sulla narrazione e sulla relazione può effettivamente occuparsi di coloro che soffrono e di coloro che si prendono cura di loro.
[1] Jasanoff, S. Technologies of humility. Nature 450, 33 (2007) doi:10.1038/450033
[2] Janet Delgado. 2019. “Re-thinking relational autonomy: Challenging the triumph of autonomy through vulnerability. BIOETHICS UPdate 5 (2019) 50–65)