Silvia Rossi, PhD, nelle sue ricerche indaga il legame tra letteratura e malattia, oltre alla medicina narrativa. Insegna Sociologia della salute all’École de Santé Publique della Faculté de médecine dell’Université de Lorraine. Qui è possibile leggere un’intervista a Silvia, ospitata sempre su Cronache di Medicina Narrativa, sul progetto TemA Cancer.
D. Come si articola il suo programma di insegnamento in Sociologia della salute?
SR. I miei corsi sono destinati a studentesse e a studenti, dal secondo anno al master, che seguono un percorso nell’ambito della salute pubblica o della medicina; i contenuti e le modalità di insegnamento variano a seconda delle classi e del livello, mentre l’obiettivo dei corsi è sempre lo stesso: proporre a studentesse e studenti un punto di vista – quello delle medical humanities – che sia complementare a quello prettamente biomedico proprio del resto della loro formazione e fornire degli strumenti di analisi di contesti e di situazioni che permettano di interrogarsi sul senso del loro lavoro.
Inoltre, si sta riflettendo, insieme ai colleghi di varie discipline, a come introdurre delle lezioni o dei corsi di medicina narrativa e, più in generale, di letteratura e salute, in particolare nell’ambito della riforma degli studi della salute attualmente in corso [1].
D. Nel suo libro Écrire le cancer lei analizza il modo in cui si scrive del cancro: ci può raccontare quali sono i risultati più evidenti di questo suo lungo progetto di ricerca? Ci può raccontare quali erano, quali sono, e se e come sono cambiate nel corso degli anni le metafore utilizzate per descrivere la malattia del tumore?
SR. In ambito oncologico, la metafora della guerra è condivisa da professionisti della cura e da persone malate: lo constatava Susan Sontag negli anni Settanta [2] ed è ancora vero oggi; quando si parla di arsenale terapeutico, o di cancer survivor, è Il lessico della guerra quello a cui si fa ricorso. Un passaggio del libro La formula chimica del dolore di Giacomo Cardaci, pubblicato nel 2010, illustra bene l’attualità di questa metafora:
Al posto delle mitragliatrici e dei bazooka, si usano gli aghi e i bisturi che come pallottole ti squarciano la pelle o peggio ciò che sta sotto; al posto delle bombe nucleari, le chemioterapie che esplodono dentro di te al pari delle granate più potenti, facendo piazza pulita di tutto ciò che trovano [3].
D’altra parte, la metafora della guerra talvolta non basta a render conto dell’esperienza complessa che è il cancro: nelle mie ricerche dottorali, presentate nel libro Écrire le cancer, mi sono interessata al linguaggio che emerge dalle narrazioni delle persone direttamente toccate dalla malattia. L’analisi delle opere pubblicate in Italia tra il 2004 e il 2010 – ad esempio, Un altro giro di giostra [4] di Terzani o il romanzo personale del già citato Cardaci – mostra che il cancro non è sempre una guerra; talvolta è visto come un viaggio, talvolta è raccontato tramite metafore tratte dal mondo dello sport, talvolta si fa ricorso al linguaggio religioso. Il fatto che sempre più persone malate prendano la parola e raccontino la loro malattia, insieme all’evoluzione dei trattamenti e al miglioramento della prognosi, sono alcune delle ragioni che hanno portato all’arricchimento del linguaggio attorno al cancro e contribuiranno a far evolvere la rappresentazione sociale di questa malattia.
D. Quale ritiene sia il linguaggio più funzionale alla comunicazione con una persona che ha un tumore? E con chi ha vissuto un’esperienza di malattia oncologica? Cosa consiglierebbe quindi ai curanti come miglior metodo espressivo?
SR. La pluralità delle metafore utilizzate dalle persone malate per raccontare la loro esperienza dimostra che non esiste un linguaggio «migliore» per comunicare in ambito oncologico, ma un linguaggio appropriato a seconda delle rappresentazioni, dei valori e delle esperienze di ognuno. Inoltre, il linguaggio utilizzato al momento dell’annuncio della malattia può evolvere e modificarsi durante il percorso di cura; l’analisi delle metafore utilizzate nelle autopatografie [5] dimostra come «la guerra al cancro» sia l’espressione utilizzata nella maggior parte dei casi dai pazienti che ricevono una diagnosi oncologica . D’altra parte, nel caso della cronicizzazione della malattia, questa stessa metafora può apparire inadeguata: si parla allora più spesso di «compagno di viaggio», di «coabitazione»… Per rispondere alla sua domanda, non credo esista un «linguaggio più funzionale», ma una personalizzazione della cura che includa anche il linguaggio.
[1] In merito, consultare https://www.enseignementsup-recherche.gouv.fr/cid146432/www.enseignementsup-recherche.gouv.fr/cid146432/suppression-de-la-paces-les-nouvelles-modalites-d-etudes-de-sante-publiees.html (in francese)
[2] Sontag, S. (1978/79). Malattia come metafora. Torino: Einaudi.
[3] Cardaci, G. (2010). La formula chimica del dolore. Milano: Mondadori.
[4] Terzani, T. (2004). Un altro giro di giostra – Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo. Milano: Longanesi Saggi.
[5] Parafrasando la definizione di Ph. Lejeune di autobiografia, definiamo l’autopatografia come un racconto retrospettivo in prosa che un individuo reale fa della propria malattia, in cui l’esperienza di malattia dell’autore, quella del narratore e quella della persona malata di cui si parla nel racconto sono la stessa.