Presentiamo un’intervista a Eleonora Cocco, Professore Associato di Neurologia presso l’Università di Cagliari e responsabile del Centro Sclerosi Multipla di Cagliari. Ha collaborato con l’Area Sanità di Fondazione ISTUD dell’ambito del progetto SMART – Sclerosi Multipla: ascolto delle realtà multi-professionali dei neurological team, patrocinato dalla SIN e condotto in partnership con Biogen Italia, e che ha coinvolto trenta centri di cura.
D. Nel contesto del progetto SMART, che cosa ha rappresentato per lei la Medicina Narrativa?
EC. Sicuramente l’approccio narrativo è un aspetto importante di questo progetto. Come medici, siamo sempre stati abituati a ragionare sui numeri, e spesso nelle ricerche ci perdiamo una grossa quota: l’aspetto qualitativo, che è imprescindibile nella professione medica. Ricordare l’importanza di questo aspetto è particolarmente urgente, soprattutto nel campo delle malattie croniche, come la sclerosi multipla.
Non solo, dunque, rischiamo di perdere l’aspetto più intimo e relazionale delle persone con sclerosi multipla, ma noi stessi ci dimentichiamo di essere partecipi in prima persona nella relazione di cura. L’approccio narrativo permette di colmare quei gap che ci lascia un approccio quantitativo più classico.
D. Che elementi emergono sui professionisti da un punto di vista generazionale?
EC. Io appartengo a una generazione che potremmo definire “intermedia”, al momento, ossia quella degli anni Settanta. Per quella che è la mia esperienza – mia e dei colleghi che lavorano con me, che sono in parte anche più giovani – e dai contatti che ho con colleghi di altre strutture, devo dire che l’impegno dei colleghi “più giovani” e la qualità della relazione che questi tentano di instaurare con le persone che abbiamo in cura non sono inferiori a quelli messi in atto da altri colleghi, strutturati e con un’esperienza di più lunga data.
Anzi, talvolta vedo proprio nei professionisti strutturati e con più anni di lavoro alle spalle un rischio maggiore di allontanarsi. Certo, la precarietà rimane un problema di fondo, ma non la vedo come un problema “di relazione”: il problema, in questo caso, sorge quando una persona contrattualmente precaria ha installato una buona relazione con le persone in cura e deve andare via perché ha trovato lavoro altrove. La precarietà non implica necessariamente una mancanza di attenzione nella cura, o un distacco emotivo: credo che questi siano più una questione di sensibilità e di ambiente in cui ci si forma.
D. Il tema del burn-out è emerso dal progetto come un elemento trasversale ai professionisti. Quali sono le sue riflessioni in merito?
EC. Considerando che ho svolto la mia attività professionale in un centro di questo tipo, ossia dedicato a chi è affetto da sclerosi multipla, ho visto persone che hanno avuto grosse difficoltà, per questioni personali ma anche per il carico professionale ed emotivo. In linea di massima, il nostro sistema sanitario ci mette a gestire la sofferenza umana a 360 gradi, ma non ci prepara a gestire la nostra sofferenza: noi operatori siamo a rischio proprio su questo.
La nostra formazione spesso non dà valore alle scienze umane: ci mette davanti agli aspetti tecnici, e non a quelli più personali e umani di gestione di quelle che potrebbero essere le nostre emozioni e il nostro ruolo nel processo di cura. Un approccio narrativo potrebbe aiutare nell’evitare tutta una serie di situazioni che sono pesanti: quando sei a contatto con la sofferenza e con patologie in cui non puoi essere di aiuto da un punto di vista “tecnico”, questo ti porta a entrare in crisi anche dal punto di vista personale. Il burn-out è un problema, che però è anche legato al fatto che culturalmente non siamo pronti ad affrontare la cronicità e la nostra stessa presenza nei percorsi di cura.