Nell’ambito di un recente Disability Lab, Maria Giulia Marini ha tenuto una presentazione sull’inclusione delle persone con disabilità sul posto di lavoro. Ha collegato questo tema ai diversi tipi di empatia e al modo in cui le persone possono imparare l’empatia, non solo nell’infanzia ma anche in età adulta.
Sebbene l’empatia sia in parte intuitiva, gran parte di essa deve essere insegnata fin da piccoli. Esiste una distinzione tra la natura affettiva, che nasce istintivamente quando si condividono le emozioni dell’altro, e la natura cognitiva, che attiva aree cerebrali più evolute quando si impara a comprendere il ragionamento e la prospettiva di un’altra persona. L’empatia affettiva può manifestarsi in frasi come “sento il tuo dolore”, mentre l’empatia cognitiva può manifestarsi nella capacità di dire “capisco perché la pensi così” e “lavoriamo insieme per soddisfare le tue esigenze”. Sebbene l’empatia affettiva sia una base utile per comprendere gli altri, l’empatia cognitiva – che deve essere insegnata – ci aiuta ad adottare pratiche inclusive.
Quando si lavora per imparare l’empatia cognitiva, bisogna capire perché non si verifica istintivamente. Per un istinto di autoconservazione vecchio di migliaia di anni, il cervello “primate” di una persona vuole automaticamente respingere chiunque percepisca come “diverso”. Si pensi, ad esempio, all’amigdala, che svolge un ruolo importante nell’attivazione della paura. Per quanto riguarda la disabilità fisica, la parte più primitiva del cervello reagisce negativamente a causa della percezione che una persona con una disabilità visibile sia “diversa”.
Tuttavia, usiamo la neocorteccia, lo strato più evoluto del nostro cervello, per esercitare la fiducia e la ragione. Consideriamo la corteccia prefrontale, che ci aiuta a moderare i nostri comportamenti sociali e a prevedere le conseguenze delle nostre azioni. Grazie al cervello evoluto, possiamo educare noi stessi e gli altri ad accogliere la diversità.
In uno studio rivoluzionario del 2024, il professor Grit Hein ha scoperto che gli adulti possono imparare l’empatia – al di là della semplice imitazione – osservando gli altri intorno a loro. Questa interessante osservazione sfida la convinzione popolare che l’empatia possa essere insegnata solo nell’infanzia o nell’adolescenza. Altri ricercatori hanno anche dimostrato che la neuroplasticità, la capacità del sistema nervoso di riorganizzarsi in risposta a nuove informazioni, persiste anche in età adulta. L’insieme di queste scoperte ci mostra che l’apprendimento dell’empatia cognitiva è possibile grazie sia alla natura (l’esercizio della nostra neocorteccia ad apprendere dall’esperienza e dall’osservazione) sia alla cultura (le norme comportamentali di un gruppo), che si influenzano a vicenda.
L’interiorizzazione dell’empatia cognitiva ci permette di costruire l’inclusività per le persone con disabilità sia sul posto di lavoro che nella società in generale. Inclusività significa non solo riconoscere le barriere che una persona con disabilità deve affrontare, ma anche adottare attivamente pratiche e infrastrutture per garantire che tale persona possa partecipare pienamente alle attività sociali e lavorative senza discriminazioni.
Questa presentazione si concentra in particolare sull’inclusione delle persone con disabilità invisibili, che spesso non vengono riconosciute perché le loro disabilità non sono facilmente percepibili. In un racconto, una donna affetta da miastenia, una malattia che provoca debolezza muscolare, scrive: “Non sembro malata, ma lo sono.
Non sembro malata ma lo sono e non vederlo riconosciuto fa stare male” (traduzione dall’italiano). La disponibilità con cui colleghi, familiari e amici riconoscono e rispettano la disabilità di qualcuno fa la differenza nel promuovere l’inclusività. Due racconti contrastanti di persone con epilessia illustrano la portata di questi impatti.
Una delle persone con epilessia, una donna che lavora in una posizione dirigenziale in un ospedale, documenta un’esperienza positiva sul posto di lavoro. Scrive: “I rapporti sul lavoro sono molto buoni, quasi tutti i miei colleghi sanno della mia malattia e non ne fanno un problema… Le persone a me vicine mi dicono che sono una persona coraggiosa, testarda ma dal cuore grande” (traduzione dall’italiano). Grazie al riconoscimento e al sostegno dei suoi colleghi e dei suoi cari, riesce a trarre il massimo dal suo duro lavoro e dalla sua dedizione al lavoro.
D’altra parte, un’altra persona con epilessia racconta le difficoltà che ha affrontato a causa della sua condizione. A causa della loro condizione, hanno sperimentato l’isolamento dagli amici e la difficoltà di trovare un lavoro per molto tempo. Alla fine sono stati assunti in un distributore di carburante e hanno rilevato l’attività con l’aiuto della famiglia dopo il pensionamento del proprietario. Tuttavia, la pandemia COVID-19 ha costretto il nostro narratore a chiudere la stazione di servizio. Dopo la pandemia, hanno cercato un altro lavoro, ma la discriminazione rende molto difficile l’assunzione. Dichiara: “[…] appena sanno che ho l’epilessia l’opportunità di lavoro sparisce” (traduzione dall’italiano).
Nel complesso, questi casi evidenziano come l’inclusione della disabilità nel mondo del lavoro debba avvenire sia a livello di istituzioni che di individui. Le istituzioni devono praticare l’empatia cognitiva nei loro processi di assunzione e nelle loro politiche sul posto di lavoro, e gli individui devono dimostrarla assicurandosi attivamente che i loro colleghi con disabilità possano partecipare pienamente al lavoro. Anche i familiari svolgono un ruolo fondamentale nel fornire un sistema di supporto completo al di fuori del lavoro, favorendo un ambiente sociale empatico oltre a quello lavorativo. Promuovendo l’empatia cognitiva come gruppo, i datori di lavoro e i colleghi possono creare in modo più efficace un luogo di lavoro inclusivo per le persone con disabilità, che tenga conto delle loro esigenze.