Maria Giulia Marini è Epidemiologa e Counselor, Direttore Scientifico della Fondazione Istud, Milano
Insegno comunicazione agli studenti di Scienze della Vita in un Master dedicato a portarli alla carriera lavorativa. Sono usciti dall’Università, alcuni con una laurea, altri con un Master e alcuni addirittura con un PhD. Questi 57 studenti hanno un solo grande desiderio, uscire dal mondo accademico scientifico (e in Italia, posso evidenziare, questo mondo non è facile a causa della scarsità di risorse intorno alla scienza, a parte qualche laboratorio universitario).
Da un lato, sono arguti, curiosi e desiderosi di apprendere nuove competenze, come ad esempio l’Intelligenza Emotiva, l’Empatia e l’importanza del linguaggio; dall’altro, stanno ancora elaborando il dolore di lasciare il loro mondo accademico scientifico. Per questo, quando insegno comunicazione, ancoro la mia lezione al funzionamento neuroscientifico e ai modelli cerebrali, spiegando gli effetti di parole brutali, parole gentili, immagini, suoni sulla nostra mente e sul nostro corpo. Non potrei mai andare a parlare a 57 scienziati con una predica ecumenica come “se sei gentile e calmo quando parli, la tua comunicazione sarà efficace”.
Quindi, la creazione di questa fusione tra la consulenza narrativa e le scienze è un milieu che aiuta la lezione a svilupparsi. Lo sviluppo del pensiero critico negli studenti è una delle mie mission, condivisa con i miei colleghi, al momento di entrare in classe: stimolare gli studenti su dilemmi, o su decisioni sagge, è una pratica poco consentita nei laboratori scientifici italiani, e gli studenti godono che qualcuno chieda loro di pensare, di parlare, di esprimersi e non solo di essere un vaso vuoto in cui mettere nozioni, o giovani apprendisti – a volte sfruttati – con la ricompensa della tesi e il nome sulla pubblicazione, solo per fare meccanicamente quello che il protocollo di laboratorio prestabilito richiede.
Queste righe non vengono da me ma dalla loro dichiarazione: bene, come incanalare tutto questo potenziale, e potremmo dire, delusione nell’aver amato così tanto la ricerca e dopo un certo periodo rendersi conto che, per molti di loro, non era il pane quotidiano che poteva produrre la loro felicità?
Il tema del Green Pass europeo era ed è ancora il ritornello italiano: obbligatorio o non obbligatorio. Cosa copre questo certificato? Persone vaccinate contro il Covid-19, persone guarite dal Covid-19 e persone i cui tamponi o altri test eseguiti entro 48 ore sono negativi.
Divisi in otto gruppi, gli studenti hanno dovuto preparare una presentazione di comunicazione informata ed efficace su Pro del Green Pass (4 gruppi) e Contro del Green Pass (4 gruppi). Essendo tutti scienziati, dai loro discorsi, ho capito, all’inizio, che volevano troppo rimanere nella zona di comfort del Pro Green Pass: ma il destino casuale ha deciso. E quello che è risultato chiaro è che hanno trovato anche molte ragioni, non per ideologia, ma per scienza, contro il concetto di Green Pass obbligatorio, quindi nell’ambito della responsabilità dell’Interdipendenza.
Alcune delle loro osservazioni. Il Green pass in Italia è obbligatorio in tutte le strutture sanitarie, nelle scuole, nelle università, nei bar, nei ristoranti, negli aerei, nelle navi, nei musei, nei treni a lunga percorrenza. Peccato che non sia richiesto nei luoghi dove il rischio di contagio è più alto, nei treni dei pendolari, negli autobus pubblici, nella metropolitana. E questa è la prima incongruenza. Per le persone che, per qualsiasi motivo, non hanno voluto andare a farsi inoculare il vaccino, devono pagare 20 euro ogni tampone almeno ogni 48 ore per andare al lavoro, visto che in molte aziende viene richiesto il Green Pass. In altri paesi europei i tamponi sono gratis, o si pagano fino a 5 euro, qui no, con la realizzazione di tanto margine economico su ogni test.
La richiesta del Green Pass è un alibi per non dire che la vaccinazione dovrebbe essere obbligatoria: ma nessuno osa dirlo, visto che, come sappiamo, siamo nel più grande processo di ogni epoca, quello della vaccinazione pandemica. Nonostante l’EMA e l’AIFA abbiano approvato i vaccini, sappiamo che il tempo per misurare l’efficacia e la sicurezza è stato molto spinto in basso e compresso. Era l’unico modo per avere i vaccini e il modo più veloce possibile. Ma alcuni studenti si chiedevano se fosse meglio andare per una vaccinazione obbligatoria (e io sono in qualche modo con loro) che per un Green Pass obbligatorio.
Alcuni intellettuali in Italia sono contrari all’obbligatorietà di questo Green Pass, in quanto potrebbe ledere il principio democratico dell’Indipendenza: nel partito di sinistra si tende a portare avanti la tesi che chi critica il green pass è un no-vaxer che mette in discussione la scienza. Eppure, proprio a sinistra, non mancano gli intellettuali che non hanno problemi ad esprimere le loro critiche al Green pass. L’Istituto Italiano di Studi Filosofici di Napoli ha pubblicato un clamoroso intervento di Massimo Cacciari, cofirmato da un altro importante filosofo, Giorgio Agamben. Il succo si può riassumere così: il pass verde è dispotico, così come è autoritaria la continua discriminazione di chi non vuole essere vaccinato. Questo documento è stato firmato anche da Alessandro Barbero, professore di Storia e principale influenzatore.
Il dibattito è ancora in corso. Sul versante opposto, altri intellettuali come Michele Ainis, costituzionalista, dicono: “il lasciapassare verde rappresenta un equilibrio tra diversi valori nell’interesse della democrazia. Può essere introdotto nei luoghi di lavoro purché sia generale e ragionevole, quindi è giusto non distinguere tra pubblico e privato, tuttavia ci sono dei limiti: licenziare chi non si adegua sarebbe una sanzione sproporzionata, e ricordo che la Repubblica italiana è fondata sul lavoro”. E la nostra libertà è per definizione limitata: tutti dobbiamo pagare un’assicurazione per l’auto, senza chiederci se è una violazione della libertà privata. Quindi, l’interdipendenza è anche qui nella nostra costituzione e nella nostra legge (e questo veniva da un gruppo Pro Green pass).
Un gruppo No Green Pass stava ricordando la tristezza della morte della giovane Camilla, 18 anni, dopo la prima inoculazione della vaccinazione in un evento di vaccinazione open day della scuola. La realtà era che lei era già gravemente malata, affetta da una malattia autoimmune, e questo non è stato abbastanza verificato durante questa giornata, che sembrava più una cerimonia che una serie di atti medici.
E un altro gruppo di No Green pass stava anche dicendo che la popolazione più giovane è stata vaccinata tardi, in luglio e agosto, e ha pertanto perso molte occasioni di socializzazione e speso (essendo molti di loro non lavoratori ma studenti) soldi in tamponi obbligatori.
Il processo con cui gli studenti hanno scoperto che c’erano tante incongruenze in entrambe le situazioni è stato fantastico: i limiti c’erano, lasciando andare le ideologie, permettendo alla scienza probabilistica di entrare così come ai diritti civili. La popolazione più giovane era già vaccinata in Italia e il Green Pass era solo una piccola spinta per convincerli: abbiamo un problema serio con 3,5 milioni di abitanti sopra i 40 anni, che stanno scomparendo da qualsiasi vaccinazione. Pochi di loro forse per ideologia, ma la maggior parte perché vaste campagne di comunicazione sono state inutili: come insegna il prof. Dunbar, dovremmo andare uno per uno, a livello capillare, ricreando questo sentimento di interdipendenza all’interno di una comunità, per il bene di noi stessi.
E i 57 studenti hanno creato, dialogando e confondendosi e pensando e sentendo, una vera Comunità di Pratica.