Negli ultimi anni, il divario tra ciò che è virtuale e ciò che è reale, tra cosa è corporeo e cosa è extracorporeo sta diventando sempre più sottile.
La diffusione delle “tecnologie integrative” lascia intravedere la possibilità di poter gestire e, in alcuni casi, superare problematiche funzionali rilevanti, e di effettuare pratiche riabilitative innovative aprendo a scenari fino a qualche decennio fa impensabili.
Arti bionici, esoscheletri, riabilitazione robotica, infatti, stanno restituendo speranza e voglia di vivere a persone che hanno conosciuto l’esperienza traumatica dell’amputazione di una parte del corpo. Tornare a camminare, afferrare oggetti, vedere le persone alla stessa altezza, fare le scale, riuscire ad accedere a luoghi prima inaccessibili, sembrano non essere più sogni irraggiungibili, ma obiettivi sempre più vicini.
Certo, rimane il rischio concreto che queste innovazioni siano tali solo su un piano astratto. Il raggiungimento dell’autonomia e la capacità di partecipazione alla vita attiva, nel mondo della disabilità, sono concetti molto soggettivi: quello che, a un primo impatto, sembrano delle soluzioni tecnologiche accettabili per tutti, devono essere calibrate e declinate secondo le reali esigenze delle persone con disabilità, per essere realmente uno strumento al servizio dell’individuo e non una mera conquista scientifico-tecnologica.
Il camminare, ad esempio, non è la sola dimensione mancante nella vita di una persona con lesione midollare: pensiamo alla difficoltà a riadattarsi a un mondo pieno di ostacoli, e alle complicanze fisiche, le paure, le difficoltà economiche e sociali, i desideri.
L’individuazione di una soluzione tecnologica integrativa è il risultato di un percorso riabilitativo multidisciplinare che parte dall’ascolto della persona amputata e del nucleo familiare di riferimento, al fine di comprenderne aspettative e bisogni per poi coinvolgere i medici, gli infermieri, i fisioterapisti, i tecnici ortopedici e gli sviluppatori delle protesi.
È ormai opinione condivisa che la personalizzazione rappresenti l’elemento di successo di un progetto riabilitativo, e che non si debba soltanto soffermarsi su aspetti squisitamente clinici e motori, ma valutare l’impatto psicologico, sociale, economico che l’utilizzo di una protesi può generare.
Per questo motivo, dal 2014 l’Area Sanità e Salute della Fondazione ISTUD ha avviato una collaborazione con il Centro Protesi di INAIL, il Rehab Technologies Lab dell’Istituto Italiano di Tecnologia e, dal 2018, con il BioRobotics Institute della Scuola Superiore Sant’Anna, partner che rappresentano la massima espressione delle competenze di protesica, biorobotica, bionica in Italia.
Il lavoro svolto da ISTUD è stato quello di avviare una operazione di ascolto su ampia scala con un approccio qualitativo e quantitativo con le persone con una amputazione di arto superiore/inferiore e il nucleo familiare e clinico di riferimento. In questi anni, sono state ascoltate più di 300 persone, familiari, operatori sanitari; i dati ottenuti sono stati utili per raccogliere nuove informazioni e conoscenze e sono stati la base, per i partner tecnologici, per la realizzazione di soluzioni tecnologiche realmente utili ed innovative.
In ogni tecnologia c’è sempre attaccato un corpo, afferma Tomás Maldonado, designer e filosofo “trasversale”: frase che riassume, a mio modo di vedere, il legame imprescindibile che deve esserci tra corporeità e tecnologia.