Genesi 9.4 – Dopo il diluvio diede a Noè e alla sua famiglia il permesso di
includere carne animale nella loro alimentazione ma comandò di non mangiare sangue.
Levitico 17:14 – Non dovete mangiare i sangue di nessuna sorta di carne, perché
l’anima di ogni sorta di carne è il suo sangue. Chiunque lo mangi sarà stroncato.
Il giudice gioca un ruolo importante. Così come nella sentenza sul caso di Fabiano Antoniani e Marco Cappato, escono di scena i medici, i pazienti e le loro reti relazionali, ed entrano in campo le decisioni della Legge. Le ultime, su un caso difficile, in un paese come il nostro che si batte per la vita a qualsiasi costo, come a volte accade anche nella “letteratura”.
Per “letteratura” intendo non solo quella dei casi giuridici, ma anche il romanzo letterario. Ci ispiriamo a fatti potenzialmente veri, o che potenzialmente accadranno, e che sono accaduti nella penna dello scrittore visionario Ian McEwan, con il suo The children Act. In italiano il titolo è stato tradotto come La ballata di Adam Henry, forse perché la traduzione letterale sarebbe stata, per il nostro pubblico, troppo complessa.
Entriamo nella storia: il giudice Fiona Maye, che lavora per il tribunale della corte dei minori a Londra, si occupa di potestà genitoriale in questioni che riguardano sia aspetti sociali che sanitari, ad esempio quando i genitori non sono concordi con la scelta dei servizi civili – come può accadere in casi di abuso o violenza – e o con le scelte terapeutiche. In uno dei casi seguiti, il giudice Maye opera la scelta salomonica di dover separare due gemelli siamesi, sapendo che uno vivrà e l’altro morrà, contro la decisione dei genitori, che non vorrebbero fare nulla e lasciare il destino in mano a una maligna madre natura. Fiona sceglie a favore di una vita salvata dei due gemelli e si ritrova contro la stampa, l’opinione pubblica che la chiama “assassina”: ciò accade in Inghilterra, nella nostra contemporaneità, e McEwan ci informa che, ad ispirarlo a scrivere il romanzo, è stato un magistrato che una sera gli ha raccontato del caso di un minorenne testimone di Geova con cui, una sera, stava parlando di calcio, per creare un legame; ha poi studiato molte sentenze del tribunale minorile e ha seguito personalmente queste cause. Di fatto, uno scrittore ispirato e informato.
Il personaggio di Fiona Maye è tormentato da un matrimonio non consumato da troppo tempo e dal marito, professore universitario, che ha una sua dottoranda come amante. Ma la gioventù al maschile non tarderà a bussare alla porta di Fiona: infatti, sebbene sia una donna di successo ma con una vita che si sta sgretolando ha tante certezze, la musica, il concerto cantato di Natale. La maschera sociale in una Londra dell’establishement degli avvocati, non le permette di manifestare alcuna debolezza, soprattutto quando le giunge un caso di un ragazzo minorenne malato di leucemia a cui i genitori non vogliono effettuare la trasfusione di sangue, in quanto Testimoni di Geova.
Questione semplicissima, direbbero molti clinici: qualche anno fa ero in un aula di formazione in un ospedale del Nord Italia, quando, affrontando il tema del consenso informato dei genitori, mi è stato detto, “Eh sì, poi con i figli dei testimoni di Geova inizia il balletto della patria potestà tolta dal giudice ed affidata al medico”. Nel libro non si parla di “balletto” ma di “ballata” – chissà perché i medici avevano usato la parola balletto, come per dire un passo di danza dinamico, come uno spettacolo che si fa a teatro, e qualcosa che va a finire bene.
Adam Henry è il nome di questa persona malata di leucemia, che però non è un più bambino: ha 17 anni e nove mesi, ed è un quasi maggiorenne, cresciuto in una famiglia molto credente nel principio della contaminazione da parte del sangue ricevuto da altri.
La discussione in tribunale è convulsa, il medico dice che se non riceve la trasfusione i trattamenti che stanno effettuando non daranno chance di possibile guarigione, e che il ragazzo andrà incontro a una morte atroce; di contro, la difesa dei genitori si attacca sull’ipocrisia dei tre mesi di distanza dalla maggiore età – una questione formale, perché il ragazzo vuole comportarsi e quindi morire coerente ai valori della religione di Geova, anche per dare esempio di essere forte e di credere in Dio fino alla fine e in un altro mondo che vale ben più che questa vita. Così scrive Adam:
L’anima mi sprofondò in un buco nero
Quando Satana il fabbro il feroce guerriero,
Prese a battermi senza posa il cuore
Consegnandomi a un destino di dolore.
Poi Satana realizzò una lastra d’oro
Sulle cui balze vidi splendere amore,
un cammino che Dio inondò di luce
Chiara dove l’anima mia trovò la pace.
Nella Ballata di Adam Henry, esplicite sono le sue credenze e volontà: Satana creatore della malattia, Dio, il luogo della pace.
Fiona, anziché agire con l’impulso riflesso del “balletto”, ovvero togliere d’ufficio la patria potestà ai genitori direttamente in tribunale, decide di recarsi all’ospedale dov’è ricoverato Adam per parlargli. Il ragazzo è bello, intelligente, vivace, colto, e scrive poesie e ballate. Da quando è ricoverato, ha imparato a suonare il violino in quattro settimane: Fiona è emozionata, affascinata, il canto e la musica fanno il resto.
Incontrai sulla riva del fiume il mio amore che, lieve
Sulla spalla mia stanca appoggiò la sua mano di neve.
Come l’erba è la vita, prendila come viene;
ma ero giovane e sciocco e ora il pianto è il mio unico bene.
Cantano assieme e poi Fiona ritorna al tribunale e dice che questa intelligenza, vitalità e poetica talmente sorprendenti non possono essere soppressi in nome di una religione, per cui toglie la potestà ai genitori per permettere la trasfusione di sangue e le conseguenti terapie.
I mesi passano, fino a quando Fiona non riceve una lettera di ringraziamento e di fantasie amorose da parte di Adam: nella lettera anche la presa di consapevolezza che i suoi genitori erano contenti che qualcuno per loro avesse preso la decisione di salvarlo.
Ma ciò non basta a lenire il suo senso di colpa per essere stato contaminato: il ragazzo si allontana dalla sua comunità, non frequenta più le cerimonie e comincia a pedinare Fiona, per inseguirla in Scozia dove le chiederà di andare a vivere con lei. Il giudice gli dirà di imparare a godere di nuovo del suo tempo riconquistato e di sparire invece dalla sua vita, per sempre. Poi lo bacia sulle labbra, in un istinto trattenuto dal primo momento dell’incontro, per girarsi e non voltarsi più.
La vita sembra riprendere il ritmo normale tra udienze e prove per il concerto di Natale, il marito torna a casa, a dormire in camera separata. La notte del concerto di Natale, proprio prima che Fiona si metta a cantare riceve un biglietto: la leucemia ha ripreso il suo cammino dentro Adam, e lui, da maggiorenne, ha rifiutato la trasfusione. È morto: dalle lettere inviate a Fiona e lasciate senza risposta, sembra lo abbia fatto non tanto per la fede, quanto per un atto di suicidio volontario – “possa chi affonda la croce privarsi della vita”, l’ultima riga delle sue lettere. Dopo, con il marito, la confessione e la vergogna di non averlo aiutato, quando in ogni parola da Lui scritta c’era un sommessa richiesta d’aiuto. La legge non è bastata a iniettare fiducia nel vivere e leggerezza, distogliendolo dai suoi sensi di colpa. L’ateo McEwan ancora una volta estrinseca i limiti della religione, e questo per lui è normale, ma esplicita i limiti della giustizia; salvato un ragazzo, non lo si può lasciare da solo a rientrare nella sua comunità.
Fantascienza? Narrazione dell’assurdo? A settembre 2019, una donna di 70 anni testimone di Geova in Italia rifiuta la trasfusione, e si lascia morire: per i medici un fallimento che finisce su tutti i giornali. Un altro esempio, del giugno 2018: Grazia, per anni testimone di Geova, dopo una delicata operazione chirurgica in cui è stata necessaria una trasfusione di sangue, è stata emarginata da quelli che fino a poco prima era la sua comunità. E anche le tre figlie, seguaci di Geova, hanno rotto qualsiasi rapporto con la madre, ritenuta colpevole di aver scelto di vivere.
E questa è cronaca reale: non c’è più bisogno di un giudice che decida in questo caso, quello che molti chiamano “suicidio volontario”, per questa comunità diventa invece un atto sacrificale puro, che porterà la salvezza.
Mc Ewan, come la sottoscritta, non prende alcuna posizione: David Napier, antropologo, ci parla della necessità della comprensione dei contesti culturali di appartenenza, e dell’importanza che la medicina narrativa svolge proprio per capire quali sono i valori dei curanti e dei curati – e se è possibile un allineamento, una concordanza, a volte triangolata da un giudice, una sentenza, a volte invece direttamente negoziata tra le parti. Eppure la realtà è molto più complessa anche della teoria della medicina narrativa: Adam, salvato dal giudice, si è poi sacrificato per la “sua causa”, “volendo morire” e non “non volendo più vivere”. Alcuna possibilità di convergenza, forse per un troppo breve interludio con la parte della giustizia.
Ecco perché è una “ballata” e non un “balletto” il ragionamento con altre culture o orientamenti religiosi diversi dai nostri: non può essere ridotto a una mascherata teatrale, come invece alcuni clinici dicono, forse proprio per non entrare in contatto con la loro sofferenza più profonda, quella di perdere una vita umana che era possibile salvare secondo la cultura occidentale laica.
La ballata è spesso un brano musicale suonato con un tempo lento, in genere strumentale o con testo di argomento sentimentale, o con un deciso contenuto narrativo.
Come l’erba è la vita, prendila come viene;
ma ero giovane e sciocco e ora il pianto è il mio unico bene.