E’ stato per serendipità, quella fortuna di fare felici scoperte per puro caso, che dalla medicina narrativa mi sono avvicinata al linguaggio dell’arte: cercavo quelle parole “intelligentemente gentili”, non quelle del brusio empatico tipo “ah ti capisco”, “sono con te”, così definite dal saggio John Launer e cercavo l’effetto che queste facessero sul cervello. Insomma stiamo parlando di linguaggio e neuroscienze. E così per caso oppure per sincronicità, quel principio definito da Jung “un legame tra due eventi che avvengono in contemporanea”, connessi tra loro, che mi sono imbattuta nelle ricerche del professor Rizzolatti, lo scopritore dei neuroni specchio, che collega cervello e arte, e sviluppo dell’empatia. Lo stesso vale per Semir Zeki, fondatore della neuro estetica: e così ho scoperto che oltre agli atteggiamenti del corpo, al linguaggio delle parole, l’empatia la si sviluppa e rafforza stando immersi in quello che percepiamo come bello, accogliente, l’opera d’arte.
Fin qui troppo facile, a pensarci bene: la Venere di Botticelli come la Gioconda sono state disegnate secondo i canoni delle proporzioni umane, seguendo la sezione aurea, costante di Fidia o proporzione divina: 1.618, quella proporzione che va dalla nostra sommità del capo all’ombelico e dall’ombelico alla punta dei piedi. Rizzolatti ci dice che se vediamo opere d’arte con le proporzioni della sezione d’aurea, immediatamente ci immedesimiamo in queste e sentiamo vicinanza per la Venere, o la Gioconda o qualche altra scultura greca, e siccome sorridono lievemente, anche a noi ci capita di sorridere. E allora cosa ne possiamo fare di tutta l’arte contemporanea, dei volti decomposti di Lucien Freud, delle asimmetrie di Picasso, delle caricature di Grosz? Secondo i discorsi di Zeki e Rizzolatti e le loro evidenze scientifiche è vero che ci inquietano. Ci tolgono fuori da quella zona di sicurezza del bello classico, la costante dello scultore Fidia, con quelle misure che sono confortanti perché si ripetono in natura, nei petali dei fiori, nella ramificazione degli alberi, nelle conchiglie, nei volti umani, nei corpi degli animali, nel volo degli insetti, fino al macrocosmo delle galassie e al microcosmo del DNA. Questo, quando la natura è “perfetta” il fiore ha tutti i suoi petali, il DNA non subisce mutazioni, e le conchiglie non vengono erose dal mare.
Quando arrivano malattie, difficoltà, invecchiamento spesso saltano le simmetrie, il corpo “tradisce” le regole della sezione aurea, perché è nel corpo che vengono registrati, come in un contenitore della memoria al di là del nostro ippocampo nel cervello, la cui coda segue le regole della sezione aurea: il corpo si atrofizza, si sbilancia, si scompone, per il dolore, la stanchezza, la paura, rispecchiate nell’arte con quelle visioni da incubo, dai mostri di Bosch, alle teste di Medusa del Caravaggio (sempre però molto scultoreo sulla tela), al Bue Squartato di Rembrandt, che non ci mette a nostro agio, alle scene truci di Guernica, e alle strade piene di incidenti di Banski.
Imparo dall’arte terapia la sua definizione: l’arteterapia è una relazione di aiuto a mediazione artistica. Si definisce arteterapia l’insieme delle tecniche e dei metodi che utilizzano le attività artistico creative come mezzi di aiuto al recupero ed alla crescita dell’individuo nella sua sfera emotiva, affettiva e relazionale. E’ utilizzata in ambito riabilitativo, pedagogico, psichiatrico e di prevenzione al disagio.Parlando con Stephen Legari, arte terapeuta e terapista della famiglia che lavora presso l’oramai celebre Musée des beaux-arts de Montréal, famoso perché in questo museo i pazienti vengono a visitarlo gratis grazie a prescrizioni mediche, ovvero il medico prescrive come cura l’arte, capisco che oltre all’arte classica, quella i cui cardini sono regolati dalle leggi matematiche dell’ 1.618, il suo interesse va all’arte contemporanea.
Presso il museo vengono un milione di visitatori l’anno, e migliaia di persone che hanno storie di malattia oppure di violenza o emarginazione sociale: secondo la visione del Direttore del Museo, Nathalie Bondil, il museo con la sua arte deve contribuire sia al benessere individuale come alla coesione sociale. Come raggiungere gli obiettivi? Con l’arteterapia, risposta retorica. Ma cosa significa fare arteterapia? Stephen Legari mi dice che del Trauma, sia quello con la T maiuscola, una violenza, un abuso, una malattia grave, come quello con la t minuscola, una serie di piccoli traumi quotidiani che vengono poi “encriptati” dentro al corpo, è molto difficile che se ne parli direttamente, “a domanda risponde” con una professionista sociale o sanitario. La maschera sociale, quella che Jung chiama Persona mutuando la parola dal Latino, è troppo ingombrante, la vergogna è tanta, e inquadra l’individuo in un ruolo sociale.
Anche nei luoghi di cura, in ambulatorio, in clinica, indossiamo troppo spesso la maschera sociale e poco sveliamo o ci viene dato modo di svelare della nostra identità, che in situazioni di fragilità, invece, deve essere curata tanto quanto il corpo.
Durante la visita al museo la persona malata o traumatizzata – insomma quella ancora con la maschera sociale – si sceglie un’opera, e con stupore, capiamo che colpiscono più i quadri di volti sofferenti, corpi mutilati, tele di grigi dove il colore è stato rimosso che non le Gioconde o le Veneri… Ecco che attraverso “il terzo”, il quadro, la persona toglie la maschera e comincia a raccontare del proprio Io, di come si sente di fronte al quadro, prima le emozioni, poi i pensieri, e poi i ricordi.
L’arteterapeuta sta in silenzio ad ascoltare, pone qualche domanda evocativa, nessun brusio empatico, sente: il Trauma viene detto e comunicato, e la vita piano piano riprende un suo senso, oppure anche accadono quelle scelte “considerabili moralmente riprovevoli”, tipo chiedere la morte assistita quando non si riesce più dopo vent’anni di guerra contro il cancro a stare ancora in guerra. Raramente ma succede.E’ un momento sacro, l’opera ha sciolto il silenzio, i pensieri prima affastellati e non condivisibili, è stato un catalizzatore perché anche le persone con autismo possono attraverso un percorso che dura ventiquattro settimane presso il museo canadese, e parlare per la prima volta delle emozioni che provano di fronte ai manufatti artistici.
Arte come riabilitazione, appunto come nella definizione. E poi? Una volta snodato il passato, si arriva al presente, e qui iniziano i laboratori di creazione artistica: una revisione soggettiva dell’opera scelta, un murales collettivo, ricami, maschere che mostrano il vero volto della persona, percorsi dipinti con incontri delle tante mani che hanno tentato di aiutare la persona. E qui l’arteterapeuta, oltre a mettere a disposizione i materiali assieme a quelli che portano gli individui continua con la maieutica, “ma cosa significa per te quello che fai”, attraverso la storia dell’opera prodotta dall’individuo, ecco che si recupera quel senso occultato dalla maschera. Non solo uno ma il gruppo anche funziona da agente “energizzante e vitale”: la coesione sociale parte dalla condivisione delle proprie storie con il gruppo. Anche qui narrazioni, e il cerchio per noi studiosi di medicina narrativa si ricompone.Saltano le simmetrie, le proporzioni e anche i colori vivaci all’inizio di questo percorso: non stiamo parlando di Bello, ma di Brutto e di Doloroso. Piano piano, con la bellezza della periodicità di questi incontri, tutti i giovedì pomeriggio per le persone che hanno più di 65 anni, la giornata per le persone con disturbi alimentari dove rituale è anche il momento aggregante del pranzo, ritornano i colori e le proporzioni e la leggerezza. Anche il Bello non è dato per ciascuno di noi, ma è una continua riscoperta.
Di fatto nella nostra storia umana, abbiamo sempre vissuto un‘alternanza di prove, successi, perdite, luci e ombre, Bello e Brutto. Impossibile separare: come gli artisti formati all’accademia, più invecchiamo più lasciamo stare i canoni imposti, per andare a leggere il nostro Bello, quello individuale. Addirittura al di là delle regole della natura, seguendo le onde della propria Anima.