IL TEMA DEL FINE VITA ALL’INTERNO DELLE CURE PALLIATIVE-INTERVISTA A ANDREA PATTARO

Vuole presentarsi, parlare di che cosa si occupa e che tipo di formazione ha avuto?

Sono Medico Palliativista, lavoro per la Fondazione ADO di Ferrara, all’interno della Rete di Cure Palliative Ausl. Sono Responsabile medico Hospice, con 12 posti letto, e medico responsabile dell’Ambulatorio di Cure Palliative. Mi occupo inoltre di tutoraggio all’interno dell’Hospice, per la scuola di specializzazione in cure palliative, per altre specialità internistiche, e per studenti Universitari della Facoltà di Medicina. Il mio percorso è iniziato con l’occuparmi di ricerca clinica sull’Autismo in Neuropsichiatria infantile, in un secondo momento mi sono occupato di Medicina geriatrica, e infine dalla Medicina Generale sono approdato alle Cure Palliative.

Come si intreccia la medicina narrativa al suo lavoro

Vorrei iniziare con una premessa: ’hospice e le cure palliative moderne nascono con l’intento di focalizzare l’attenzione sui bisogni della persona.  La presa in carico del paziente comprende l’essere umano in tutte le sue sfaccettature.

Una frase che mi piace sempre ricordare e che è diventata anche un mantra per il nostro mestiere è: “Tu sei importante perché sei tu”, il senso è: io sarò vicino a te perché sei unico. Questa frase è stata pronunciata  da Cicely Sanders , prima che l’organizzazione mondiale della sanità desse la definizione di salute[1], cioè non solo come una libertà dalla malattia ma anche come una vita sociale adeguata, come una salute psicologica e come una vita familiare adeguata. Quindi, quando ci prendiamo cura di una persona, quando arriviamo (o ci imbattiamo) in un percorso di vita che molte volte è verso la fine, o comunque è in fase avanzata, la narrazione del paziente, per noi, è fondamentale, perché ci permette di entrare in quel percorso. Oggi, tener presente quella frase, è ancora più importante, e questo è anche uno dei motivi per cui io ho fatto il master.

Noi non prendiamo più in cura solo pazienti oncologici, i quali, molte volte, hanno una storia di malattia non lunghissima, ma anche pazienti con patologie croniche quindi sapere la loro storia clinica e personale è fondamentale perché possiamo, così, entrare nella loro vita delicatamente[2]. Ancora oggi i medici, in generale, fanno spesso affidamento solo sulle loro capacità o sulle loro inclinazioni dialettiche personali, tuttavia è necessario che queste competenze vengano elaborate e insegnate durante la loro formazione così da imparare ad ascoltare il paziente e i propri familiari. Per quanto riguarda i pazienti che si trovano nella fase terminale della vita, il medico si trova di fronte a rapporti familiari che nei decenni possono aver subito modificazioni, cambiamenti quindi devono essere considerati e soppesati, nel momento in cui, ci si approccia all’ascolto e soprattutto alla comunicazione con il paziente.

Quali sono gli obiettivi che lei e il suo hospice avete raggiunto e quali sono invece quelli che dovete ancora raggiungere?

Obiettivi che ci siamo posti: creare un ambiente di cura sereno, a misura del paziente e personalizzato, puntando sempre più sulla qualità del tempo che il paziente e i suoi familiari trascorrono all’interno dell’hospice. Nel project work che ho fatto per il master in medicina narrativa applicata, una delle definizioni che sono venute fuori dai racconti che ho raccolto è: “questo spazio rappresenta per me una bolla di tranquillità”. Utilizziamo, accanto alle narrazioni, l’IPOS che è una scala validata (Proms), dove vengono analizzati, dal punto di vista del paziente, i vari aspetti compresi nella cura, clinici, psicologici, sociali. Lo scopo è quello di costruire un piano assistenziale che sia personalizzato e realizzato su misura del paziente. Un altro obiettivo è rendere l’ambiente il più possibile familiare e il meno possibile ospedalizzante; quindi, abbiamo munito l’ambiente di pet therapy, di musicoterapia, di estetista oncologica, di giardino e di altri piaceri della vita. Vogliamo, insomma, cercare di fare in modo che il tempo che il familiare passa con il paziente sia il più possibile un tempo di qualità.

Un altro obiettivo, ancora, è di cercare di far capire al personale sanitario in toto che questo mestiere, il lavoro in hospice, richiede preparazione. Ognuno ha la sua modalità per interfacciarsi con la vita del paziente e la sua storia, ma, senza preparazione, rischia di non reggere una situazione particolarmente impegnativa.

E infine vorremmo creare una vera e propria rete tra le associazioni sanitarie, di Cure Palliative e non, in modo da dare l’idea ai familiari che il passaggio del paziente, da una struttura ad un’altra, rimanga tale e che non sia percepito, da loro, come un abbandono.

Vuole raccontare di casi di fine vita di pazienti in cui la medicina narrativa, per lei, è stata fondamentale o anche utile?

Sì, vorrei raccontarne due.

La storia di un paziente in fine vita, che ha anche partecipato al mio project work per il master. Questo project work era organizzato con l’IPOS (che viene somministrato al paziente ogni tre giorni), a seguire c’erano tre narrazioni dei familiari e poi una narrazione per ogni operatore che aveva seguito il paziente.

La medicina narrativa in questo caso è stata di aiuto sia per questo paziente che per noi operatori e i sui familiari (la figlia e la moglie). La moglie ha avuto l’opportunità di raccontarsi liberamente dopo tanto tempo passato a limitarsi per paura di fare del male al marito malato e alla figlia, mentre a me è servito per capire il punto di vista degli operatori e su quali aspetti concentrare maggiormente la formazione dei nuovi giovani che vogliono approcciarsi a quest’ambito della medicina. In questo caso, i due operatori, infatti, erano giovani e quindi sono emerse alcune loro difficoltà, ad esempio, nel rapportarsi con il paziente stesso.  Era una persona molto particolare, molto spaventata, che aveva individuato in loro due un punto di riferimento. Quando lui si si sfogava con loro, sentivano il peso di questa responsabilità. Quello che ha stupito me è che da questo racconto sono emersi aspetti del suo carattere, che io non avevo colto , nonostante  lo seguissi da anni.

L’altra storia è di un paziente che aveva avuto una vita molto movimentata.

Io l’ho seguito solo per un mese e mezzo ma è stato, comunque, particolarmente intenso. Io e la psicologa, che lo seguiva insieme a me, alla fine ci siamo resi conto che quello che per lui era importante era che qualcuno si ricordasse di lui, raccontando la sua storia.

La terapia migliore che noi abbiamo fatto per lui è stata ascoltare la sua storia. Questo è stato l’evento che ha fatto scaturire in me la curiosità per la medicina narrativa; possiamo dire che sia stato un evento premonitore.

Vuole aggiungere altro?

Vorrei riprendere l’importanza della formazione in cure palliative, settore che per anni è stato tenuto ai margini e che ancora oggi è visto come un lavoro facile. Ma è un lavoro che è fatto di piccole sfumature, e la medicina narrativa, per questo, è una degna alleata perché è un lavoro che esprime, che fa emergere e che tiene a galla tutte queste piccole sfumature. Infine mi piacerebbe esportare il modello delle cure palliative in altri settori della medicina, perché si basa sulla presa in carico personalizzata del paziente, sulla presa in carico del familiare e sul lavoro d’equipe che si basa su di un modello orizzontale, dove ogni operatore porta il proprio contributo, e non verticale con la figura medica al vertice.


[1] M.M.S.

[2] S.C.P., il tempo di ascolto è il tempo di cura.

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