L’incontro del Consortium for Humanities Centres and Institutes (CHCI) è stato dedicato al futuro delle Health Humanities per la salute e la Sanità. Una maratona che si è soffermata su “il discorso sul metodo”, dialogando sul confronto, l’incontro, lo scontro tra ricerca scientifica e ricerca umanistica: due mondi, apparentemente distanti, che devono essere fatti dialogare per un reciproco arricchimento per migliorare i percorsi di cura.
Sempre a proposito di “scisma” – tra l’altro, l’incontro era proprio a un giorno dalla dichiarazione della vittoria dei to leave del Brexit – si è affrontato il tema della divisione che pervade le modalità editoriali delle pubblicazioni scientifiche e delle pubblicazioni di Medicina Narrativa e di Medical Humanities. Pubblicazioni, queste ultime, che probabilmente, se non educhiamo la comunità scientifica, approderanno alla saggistica letta dagli adepti, o nella narrativa best-seller che fa profitto sulle storie dei malati. Ma è nostro compito provare a riscrivere i lavori in modo tale che i clinici, i curanti e i decisori di politica sanitaria possano coglierne lo spessore e la potenza degli strumenti narrativi. È necessaria un po’ di furbizia: includendo anche un questionario “privo di senso”, ma validato, si superano certi pregiudizi dei referees. Si è infatti ribadita la pochezza del senso dato dai questionari a risposte chiuse o dalle scale da 1 a 10 per valutare la “felicità” e la “infelicità”, se poi non ci si interroga su quali possano essere le condizioni che portano ad essere felici o infelici. Senza contare che ogni contesto sociale e nazionale ha la sua specificità: un 6 raccolto in Italia può essere molto diverso da un 6 in Grecia.
E a proposito di diversità di percezione da paese a paese, era presente la World Health Organization, che ha lanciato un gruppo di lavoro chiamato “Cultural context for health”: il tema della comprensione del contesto culturale per assicurare cure efficaci è fondamentale per assicurare cure di qualità. Per “cultura” si intende la definizione dell’UNESCO: “La cultura in senso lato può essere considerata come l’insieme degli aspetti spirituali, materiali, intellettuali ed emozionali unici nel loro genere che contraddistinguono una società o un gruppo sociale. Essa non comprende solo l’arte e la letteratura, ma anche i modi di vita, i diritti fondamentali degli esseri umani, i sistemi di valori, le tradizioni e le credenze”.
Nel 2015, una commissione del Lancet aveva indicato che l’incomprensione della cultura della persona, di un popolo, era il motivo chiave per non fornire adeguate cure mediche. Ecco che in questo contesto si inseriscono le metodologie narrative, che sono molto più efficaci a definire culture organizzative e individuali: nasce quindi l’esigenza per la WHO di inserire tra i suoi strumenti che servono per l’orientamento delle politiche socio-sanitarie, un lavoro sulle linee guida su “narrative method in public health”, per cui Maria Giulia Marini, direttore dell’Area Sanità e Salute di Fondazione ISTUD, è stata scelta come referee, date le pubblicazioni continuative e in inglese sulla Medicina Narrativa.
È quindi straordinario il fatto che la WHO, che nasce con un orientamento molto clinico, si sia aperta al mondo della narrazione per un migliore ascolto dei bisogni di cittadini, pazienti, famiglie, curanti e persone in generale.
Tra le presentazioni, interessante un lavoro della Università di Exeter sulla questione della percezione “eterna” del tempo da parte dei pazienti: in un mondo a rischio – di fatto – di dismettere il sogno e la definizione WHO della salute (“completo stato di benessere psico-fisico-sociale e non solo assenza di malattia”), i pazienti sono costretti in un’attesa prolungata, il cosiddetto “frozen time”, per ricevere risposte dai curanti. Quella del “frozen time” è una definizione che può attraversare non solo la malattia, ma l’intera società odierna. Come se ci fosse un “Aspettando Godot” amplificato, riguardante il precariato, l’economia, le relazioni tra stati e le relazioni umane. Cercare un equilibrio per tutti tra pazienza e impazienza è un po’ la sfida a cui siamo chiamati a rispondere.
Altra brillante presentazione della Università della North Carolina, questa volta sull’empatia facile: sono state messe mirabilmente messe in discussione le banali ricette a domande preconfezionate sull’empatia, denunciando l’eccessiva burocratizzazione e commercializzazione di corsi ipersemplificati su questo tema. Troppo spesso l’empatia viene trattata e insegnata in modo “patetico” ed eccessivamente compassionevole, dimenticando un’altra qualità umana innata e naturale che il genere umano possiede: oltre al piangere, la capacità di sorridere e di ridere.
Maggiore leggerezza, luce, allegria, potrebbero – e dovrebbero – essere presenti nei luoghi di cura, nelle sale d’attesa, negli atenei, nelle istituzioni sanitarie, e nei network. L’umorismo, il sorriso, una battuta gentile – senza cadere in un cinismo offensivo, ma ritornando alla capacità di scherzare e ridere: se si odia il riso, come scriveva Umberto Eco ne “Il nome della rosa”, si diventava assassini pur di vivere nella tragedia, eliminando invece la commedia umana. E la commedia è una qualità universale, e quindi, malgrado le secessioni, gli scismi e la pesantezza del giudizio, il sogno è quello di imparare a sdrammatizzare le situazioni piene di tensione, di rabbia, di dolore e di tristezza, anche nei luoghi di cura. Non più ospedale come “tempio del dolore” ma come luogo di pace e serenità.