Elena Vavassori è Medico Anestesista-Rianimatore presso la Fondazione Poliambulanza Istituto Ospedaliero di Brescia. Da alcuni anni si occupa di medicina narrativa e ultimamente si interessa di medicina tradizionale cinese, in un connubio di saperi e interessi sempre alla ricerca del contatto con l’umano.
Qualche giorno fa ho assistito ad un evento in cui si presentava un piccolo libro dal titolo Con un piede in Paradiso, scritto da un giovane sacerdote al quale, a seguito di un trauma della strada, era stata amputata una gamba. Più che il titolo mi aveva interessato il sottotitolo: la sofferenza non è fine a sé stessa.
Don Luca (così si chiama) ha cercato di dare un senso alla sua sofferenza attraverso la scrittura, sentendo forte il bisogno di senso, appunto, e di verità. Nell’incontro col pubblico ha affermato che “non è successo il miracolo della guarigione del piede, ma ho guadagnato più consapevolezza di prima”, e ancora “mi è stata concessa la grazia di essere così vicino a Gesù”.
Si è sentito inoltre grato agli amici, alla famiglia, a tutte le persone (lui le ha chiamate angeli) che il percorso della malattia gli ha permesso di incontrare. Come uomo e come prete ha abbracciato la gravità di ciò che gli è accaduto esprimendo gratitudine alla sua gamba mancante perché questa assenza lo ha portato a chiedersi “Chi sono io?” e non “cosa io sono capace di fare o di non fare più in questa mia condizione?
Questa postura verso un grave e imprevisto accadimento nella propria vita mi ha ricordato ciò che scrisse Oliver Sacks, medico neurologo, cui fu diagnosticato un tumore. Egli scrisse: Sono grato che dopo la diagnosi iniziale mi sono stati concessi nove anni di buona salute e produttività […]. Negli ultimi giorni sono riuscito a considerare la mia vita come da una grande altezza, quasi fosse una sorta di paesaggio, e con una percezione sempre più profonda della connessione fra tutte le sue parti”. Don Luca e Oliver Sacks, due persone lontane nel tempo e nello spazio, ma vicine perché entrambe con un vissuto di malattia.
I grandi medici del passato hanno detto e scritto che i pazienti sono i migliori maestri per un medico. Non solo condivido pienamente questo pensiero, ma lo vivo come vero. La malattia insegna al medico, ma ogni paziente, se ascoltato, insegna qualcosa che va oltre il sintomo: insegna la sofferenza e ti impegna a guardarla.
La mia gratitudine va ai pazienti, anche quando capitano avvenimenti non previsti: la cosiddetta “morte diffusa” durante la pandemia Covid mi ha insegnato che i medici non sono onnipotenti e che gli eroi possono (forse devono) piangere. In quel duro e faticoso periodo ho certamente ricevuto più di quello che ho dato, che già mi sembrava tantissimo.
La gratitudine per me è un sentimento concreto: è esserci per poter dare ed è uno stare in contatto con un mondo, quello dell’anestesista-rianimatore, in cui ogni risveglio (e un risveglio senza dolore) dopo un intervento chirurgico ti fa sentire grato per quello che di buono hai fatto; un mondo di eventi stressanti, in cui chiedere aiuto ad un collega in caso di difficoltà mi rende grata al mio chiedere ed alla sua presenza. Consapevolezza quindi di un proprio limite e, allo stesso tempo, accettare nell’aiuto un punto di vista diverso dal proprio.
Si può essere grati per aver sperimentato l’errore, perché anche questo ti porta più in là di quello che pensavi di essere, più in là della tua presunzione di sapere. Si spalanca così una nuova consapevolezza di te e del tuo mestiere, il mestiere di medico. Si può essere grati per aver sperimentato l’amore, con le gioie che porta e anche i guai di cui è capace.
La parola gratitudine contiene molte altre parole: un sentimento di riconoscenza verso le persone o le circostanze che ci è capitato di vivere, ma anche il ricordo di ciò che si è ricevuto. Attraverso la memoria si può esprimere gratitudine verso persone (famigliari o amici) che non ci sono più ma che rimangono importanti nella nostra vita. Il ricordo di un lutto si trasforma in una emozione positiva.
Credo che la gratitudine sia una componente essenziale della nostra umanità, una disposizione d’animo che non può che rendere migliori le relazioni sia intrapersonali che interpersonali. Proprio per questo in sanità rientra, a mio avviso, nelle soft-skills da integrare con le competenze tecniche. Il sentimento, l’atto e il dono dell’essere grati come modalità di relazione con gli altri riscoprendo la capacità di empatia nel percorso di cura con le persone malate e con i colleghi; il sentimento della gratitudine per arricchire sé stessi, nutrire con le emozioni gli incontri e relazioni e raggiungere una migliore conoscenza di sé, potendo governare i propri sentimenti e riconoscere quelli degli altri, senza vergogna.
La gratitudine come aspetto dell’intelligenza emotiva: apprendere e praticare la gratitudine sviluppa benefici cognitivi ed emotivi in grado di migliorare le relazioni e l’approccio alla quotidianità. Nel mondo del lavoro inserire la gratitudine come soft-skills in una progettazione organizzativa (in ambito sanitario ma non solo), con la capacità di una visione che dia senso e verità al fatto che riceviamo qualcosa di valore dagli altri e che ciò venga riconosciuto, per aprire nuovi canali di comunicazione relazionale. Concepire in modo nuovo ciò che definiamo leadership ed aumentare il benessere delle persone.
La gratitudine nasce da un atteggiamento di apertura verso gli altri ed in questo spazio dobbiamo essere in grado di riconoscere con gioia la loro benevolenza. Non solo saper dire “grazie” perché si è educati, ma gratitudine come forma di riconoscimento sociale e presupposto di energia relazionale: meno sikness e più resilienza.
Si può apprendere la gratitudine? Secondo me sì, attraverso una formazione all’intelligenza emotiva, con acquisizione di abilità cognitive, intrapersonali e interpersonali. La gratitudine è un sentimento complesso: se considerato come un debito di cortesia o di aiuto può essere imbarazzante. Come segno di forza interiore se vissuto come riconoscenza e come autentico contraccambio di ciò che ci è stato dato. Gratitudine come spazio dove siano possibili incontri ricchi di umanità e di fratellanza. Dove ciascuno si senta libero di interrogare la propria coscienza e ascoltarne le parole. Perché le parole sono esseri sensibili.