L’invito a partecipare al Workshop “Minimal English e Natural Semantic Metalanguage” a Canberra, in Australia, nella bellissima Australian National University, è stata l’occasione per condividere e approfondire una riflessione sistematica sull’utilizzo – e sovrautilizzo – dei termini inglesi nella comunicazione sanitaria, tra medico e paziente, tra curanti e tra dirigenti all’interno delle organizzazioni.
Nelle quasi 6000 narrazioni raccolte in questi ultimi anni dall’Area Sanità e Salute di Fondazione ISTUD nei diversi contesti di cura esplorati, il tema della comunicazione ricorre continuamente parlando di relazioni di cura, a cominciare dal linguaggio utilizzato. Certi dialoghi si ricordano precisamente a distanza di anni, anche a malattia superata, per il muro che possono aver creato, perché alcune parole o espressioni inappropriate possono aver ferito, se non compromesso irrimediabilmente una relazione di cura; oppure, al contrario, si ricordano le parole di conforto, comprensione, vicinanza, piccoli gesti di attenzione.
Ci siamo chiesti quanto l’utilizzo degli “inglesismi” possa influire sulla fluidità di una comunicazione in un percorso di cura, sia dal punto di vista di chi scopre di avere una malattia e deve intraprendere un percorso terapeutico, sia dal punto di vista del professionista che riceve comunicazioni dalla sua dirigenza e dalla comunità scientifica di appartenenza, e deve poi tradurre i contenuti ai suoi pazienti. Tra abbreviazioni, tecnicismi e termini in inglese, la barriera comunicativa rischia di apparire sempre più insormontabile. Esistono 8941 acronimi utilizzati nel vocabolario medico, alcuni di questi sono in italiano, altri esistono solo in inglese [1].
Abbiamo preso in considerazione tre livelli di comunicazione sanitaria, che corrispondono ai tre livelli organizzativi in cui si può applicare la narrazione: la comunicazione medico – paziente, quella tra gli operatori sanitari e quella diffusa all’interno del sistema sanitario.
Il livello relazionale medico – paziente è quello più circoscritto, contestualizzato nella stanza del medico o nell’ambulatorio. In queste stanze si avvia la relazione di cura, si raccolgono le anamnesi, si comunicano diagnosi, si illustrano le terapie e si instaurano progettualità terapeutiche anche di lunga durata. Analizzando i diari dei pazienti e le cartelle parallele dei medici, sono numerosi gli inglesismi ricorrenti, da entrambe le parti: check up, follow up, output terapeutici, transitional care, screening, device, tutte espressioni comunemente utilizzate. E ancora, ci sono luoghi e reparti che ormai sono chiamati direttamente in Inlgese: day hospital, day surgery, trauma center, breast unit, hospice. Entrando nello specifico di alcuni ambiti di cura, poi, tecnicismi ed inglesismi si fondono. Nelle storie di preservazione della fertilità femminile, ad esempio, si parla di embryo transfer, criotransfer, pick up. Nelle storie di cardiologia, si parla di push, bypass, stroller, puffer, stent, heart risk score.
La comunicazione tra i professionisti sanitari è fortemente influenzata dai termini provenienti dalla ricerca scientifica, obbligatoriamente in Inglese: paper, abstract, submission, impact factor, survival, biomarkers, range, survey, clinical trial, case study, proceeding, sono tutte espressioni “imposte” dalla comunità scientifica internazionale. Le fonti di aggiornamento e approfondimento più validate e legittimate sono in Inglese, così come per diffondere e valorizzare una ricerca clinica italiana è necessario saperla tradurre in Inglese scientifico. Non a caso, gli articoli di ricerca scientifica sottomessi alle riviste internazionali dai professionisti italiani registrano un alto tasso di rifiuto, non certo per mancanza di qualità di contenuti, ma semplicemente per la barriera linguistica, per le difficoltà ad uniformarsi all’inglese scientifico. Ma anche nella pratica clinica si utilizzano comunemente espressioni come burn out, border line, compliance, target therapy, aging, burden of disease e tante altre, utilizzate all’interno dei “team”, per l’appunto chiamati ricorrendo all’inglese.
Ma è nell’ambito dell’organizzazione e gestione delle strutture sanitarie che si riscontra il maggior utilizzo di inglesismi, quando il contesto sanitario incontra quello organizzativo manageriale, importando il linguaggio proveniente dal mondo aziendale: data manager, risk manager, management, decision maker, turnover, briefing, budget, fee, business plan, performance, spending review, vision, mission, timeline, clinical governance, standard, FAQ (Frequently Asked Questions), stakeholder, call center, feedback, customer satisfaction, privacy, ticket, patient journey, check list, flow chart, empowerment, e-health… e si potrebbe andare avanti ancora. Per fare degli esempi, il 22 settembre 2016 il Ministero della Salute ha promosso un’iniziativa nazionale di sensibilizzazione sul tema della preservazione della fertilità, letteralmente la “giornata della fertilità”, ma chiamata in Inglese “Fertility day”. O ancora, spesso parlando di appropriatezza delle cure si utilizza l’espressione “dr shopping” per indicare la peregrinazione delle persone alle ricerca di risposte di cura tra centri esperti e specialisti; in effetti, di questa espressione non abbiamo un corrispettivo Italiano. Noi stessi, ahimè, parliamo di Medical Humanities, non soddisfatti delle traduzioni parziali che risultano nella nostra lingua.
Qual è l’origine di tutti questi inglesismi? Il web è una prima fonte di diffusione, soprattutto per i pazienti che sempre più consultano internet per informarsi su determinate malattie e condizioni. La ricerca scientifica è invece la sorgente primaria per i professionisti sanitari, ma non è l’unica. Le strutture sanitarie in cui operano sono ormai da tempo gestite come delle vere e proprie aziende, e le dirigenze hanno adottato anche il linguaggio “aziendalistico” ricco di termini ed espressioni inglesi.
Quello che le narrazioni ci dicono è che gli inglesismi ed i tecnicismi, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, sono utilizzati non solo dai professionisti sanitari ma anche da chi è in cura, pazienti e famigliari. Le persone in cura, infatti, tendono ad adottare il linguaggio dei propri referenti medici, anche se molto tecnico, nel momento in cui riconoscono una familiarità con certi termini. La differenza consiste però nel fatto che i pazienti, prima di adottare questo linguaggio, devono diventare esperti, per comprendere le loro condizioni di salute, il percorso terapeutico e, soprattutto, il loro curante di riferimento. C’è quindi una prima fase di approccio alla malattia e alle cure che può essere vissuta con ulteriore difficoltà a causa di una barriera linguistica e culturale che potrebbe invece essere facilitata da un minore ricorso e abuso di inglesismi e tecnicismi e da un ritorno, laddove possibile e sensato, alla lingua italiana.
Inoltre, il ricorso ai termini inglesi è connesso ad un linguaggio strettamente focalizzato sugli aspetti clinici e meccanicistici della malattia, in cui la malattia è intesa come qualcosa che “rompe” una parte del corpo; in Inglese è chiamata disease, in Italiano il vocabolo più vicino è, probabilmente, patologia. Implementare l’utilizzo di questo linguaggio, che noi potremmo definire con l’espressione “malattia al centro”, significa andare ancora di più verso un approccio tecnicistico alla malattia e a chi è in cura, mentre da tempo si è realizzata la necessità di ampliare la prospettiva integrando l’esperienza della persona con la malattia, in inglese chiamata illness, e che nuovamente possiamo tradurre ricorrendo ad un’espressione, in mancanza di un vocabolo corrispettivo, “persona che vive la malattia”. Dalle narrazioni emerge che gli inglesismi utilizzati si riferiscono agli aspetti più clinici, tecnici o organizzativi delle cure, mentre per esprimere le emozioni, i vissuti quotidiani e relazionali, si utilizza la propria lingua di appartenenza.
Il possibile ruolo del Minimal English. Nell’attuale contesto, quindi, l’universo sul web inevitabilmente introduce inglesismi e nuove espressioni di utilizzo comune, il mondo scientifico ha fatto dell’Inglese la lingua universale di riferimento, la gestione sanitaria è “aziendalistica” anche nelle espressioni usate; tuttavia, questo stesso contesto evidenzia la necessità di semplificare il linguaggio utilizzato nella comunicazione sanitaria. Nella ricerca di un equilibrio, il Minimal English potrebbe essere una delle chiavi di svolta di questo processo. Cos’è il Minimal English? Questo concetto è stato proposto per la prima volta da Anna Wierzbicka e Cliff Goddard nel 2014, due linguisti e professori rispettivamente nelle Università di Canberra e Brisbane, in Australia. E’ il risultato di un lavoro trentennale di ricerca e analisi di quasi tutte le lingue del mondo, con l’intento di individuare una versione uniformata, “ridotta” e semplificata dell’Inglese, utilizzabile da persone che parlano lingue diverse, come strumento per facilitare la comprensione interculturale, dove per culture differenti possiamo intendere anche contesti differenti. Non solo, ma ad ogni Minimal English corrisponde un Italiano Minimale, un Francese Minimale e così via per ciascuna lingua. E’ un vocabolario di circa 6000 termini considerati “semi-universali” per la loro semplicità e uniformità di significato tradotta nelle diverse possibili lingue. L’intento è anche quello di limitare gli effetti dell’“anglocentrismo” che può imporre a livello globale i significati e le accezioni anglofone [2].
Ricorrere ai vocaboli contemplati nell’Italiano Minimale in una comunicazione sanitaria, quindi, potrebbe voler dire individuare un linguaggio comune inequivocabile sia per il medico che per chi è in cura, diventando uno degli strumenti di facilitazione della comunicazione per lo meno delle prime fasi di un percorso di cura, per conoscersi tra operatori e pazienti, conoscere la malattia e le cure che richiede, tradurre i diversi significati culturali e di contesto in espressioni condivise e comuni.
E’ stato un onore ed un piacere conoscere Anna Wierzbicka, essere suoi ospiti presso il suo gruppo di studio all’Australian National University di Canberra, e ascoltare le possibili traduzioni pratiche e le implicazioni reali dell’utilizzo di questo linguaggio universale nella comunicazione sanitaria. Il progetto del Minimal English è ancora in divenire, ma ci auguriamo che l’applicazione pratica di questo strumento possa contribuire alla diffusione e allo sviluppo del processo di semplificazione del linguaggio utilizzato in sanità.
Come ci dicono le narrazioni, a volte basta una parola, quella giusta, per fare la differenza, sentirsi curati o curanti “davvero” e definire il destino di un percorso di cura.
Scaricare le slides dell’intervento “Gli inglesismi usati nella comunicazione in Sanità”
Note
[1] Acronimi italiani e anglosassoni usati in medicina (a cura di Gilberto Lacchia, MD e Joseph Tein, MA) Acromed
[2] Cliff Goddard. Minimal English for a Global World: Improved Communication Using Fewer Words. 2017, in pubblicazione
Medical humanities …storyTelling ???? Non ne conosco il significato !!!!!
Pingback: Sanità, troppi anglicismi alzano barriere linguistiche tra professionisti e pazienti - Italofonia.info