Silvio Angelo Garattini è oncologo, farmacologo e ricercatore italiano, presidente e fondatore dell’Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri”.
La conversazione con il professor Garattini è sempre stimolante e formativa: abbiamo parlato di linguaggio, un argomento da me affrontato nel primo capitolo del libro Health humanities for quality of care in times of Covid-19 pubblicato da Springer. Il bollettino della WHO del 11 marzo 2020 annunciava la pandemia, con un comunicato, che commenta il professor Garattini, è arrivato purtroppo in ritardo, però con le parole giuste: “We have never before seen a pandemic sparked by a coronavirus. This is the first pandemic caused by a coronavirus“: siamo di fronte a una nuova pandemia mai vista prima, figlia della globalizzazione. Il Professore aggiunge che non è possibile fare analogie con la Spagnola, la pandemia che si è sviluppata alla fine della prima guerra mondiale o altre pandemie della storia. Questa è nuova, unica figlia dei nostri tempi.
Nella pandemia da COVD-19, la novità, oltre alla velocità di contagio dovuta ai continui viaggi è stata quella di aver messo in crisi le conquiste e i progressi della scienza moderna. È mancata l’umiltà della classe scientifica nell’ammettere l’incertezza di fronte all’ignoto e sono state effettuate dichiarazioni di pseudo certezze su un terreno sconosciuto. Nel primo capitolo del libro Health humanities for quality of care in times of Covid-19 racconto di collaborazioni straordinarie tra scienziati come mai viste prima del 2020, della possibilità di pubblicare e leggere gratuitamente ogni possibile articolo scientifico ed ecco che il professore vede oltre: “sì collaborazioni tante, ma spontanee e non organizzate: quante occasioni sono state perse per impostare studi clinici controllati e non mi riferisco solo ai vaccini ma a tutta la farmacologia che è stata utilizzata quando i vaccini non c’erano ancora. E in aggiunta, è mancata una regia Europea e Italiana di raccolta delle informazioni sulle sequele del covid-19, ogni clinico scriveva i suoi propri dati e li pubblicava pensando di contribuire alla crescita scientifica ma in realtà sono stati raccolti in formati profondamente diversi e quindi non utilizzabili per metanalisi”. La comunicazione al pubblico è stata ondivaga: i cittadini abituati dal modello “salute a tutti i costi”, viziati dal mercato non hanno tollerato le incertezze e i continui cambi di opinione degli scienziati. Era più onesto dire che si navigava a vista attraverso un unico portavoce del Ministero. E a proposito di incertezza, il professor Garattini smentisce un altro luogo comune, quello che abbiamo usato nella storicizzazione di guerre e pandemie, il convivere con l’incertezza: ‘Io durante la Seconda Guerra Mondiale c’ero, avevo dodici anni e non sentivo, né la sentivamo l’incertezza e la precarietà della vita, andavo a scuola regolarmente, allora invece si pativa la fame”. Il mio commento è che ora viviamo nella Società Liquida descritta da Bauman, la società consumeristica come aveva previsto Marcuse, nel suo Uomo a Una dimensione “quella del tutto subito ora- il consumo”, e quindi qualsiasi situazione che non viene risulta velocemente genera incertezza e intolleranza.
Ecco perché sentiamo così forte la paura dell’incertezza sperando che tutto torni a una normalità sicura, che non può esistere nemmeno nella scienza come bene rifugio che si confronta con probabilità e non certezze, come afferma il principio di falsificazione d Popper.
Non ho resistito e ho chiesto al Professore dei vaccini, sui quali nel libro tratto principalmente delle scelte di disuguaglianza sociale nelle fasce di popolazione vaccinate, accadute nei primi mesi del 2021. Il professor Garattini si è espresso con chiarezza, il virus è cambiato nella sua essenza rispetto a quello del 2020, è più contagioso, resiste alle temperature estive e forse meno letale, ma non tutti sono da vaccinare, ma solo le categorie più fragili, e non necessariamente tutti gli anziani perché bisogna comprendere quale sia lo stato di salute fisico oggettivo di un cinquantenne e di un ottantenne, al di là di mere classificazioni anagrafiche.
Nel libro Health humanities for Quality of care in covid 19 times un capitolo scritto da Paola Chesi è dedicato ai professionisti sanitari nel percorso della pandemia: allora considerati degli “eroi”, oggi invece, svalutati e criticati, in un sistema considerato malfunzionante.
Cosa si può fare per loro? Il professore ci racconta che non tutti i professionisti sanitari hanno veramente vissuto il campo del Covid-19 durante la prima ondata, diversi invece erano nelle retrovie: ma è importante allargare l’Orizzonte e parlare di Sistema. Il professore nel suo libro Il futuro della nostra salute (Edizioni San Paolo) sogna una riforma del Servizio Sanitario che, ci ricorda, è un bene comune intangibile, e che purtroppo è sottovalutato e dato per scontato: mi racconta di suo padre che doveva fare doppio lavoro, di giorno e di notte, per pagare le spese mediche di una persona di famiglia ammalata – insomma, quello che succede quotidianamente negli Stati Uniti, sebbene le serie TV ci propinino una sanità straordinaria con chirurgie d’eccellenza, disponibili a curare ricchi e persone socialmente fragili come nella fiction The Good Doctor.
Torniamo all’Italia: il servizio sanitario pubblico deve essere salvato e preservato con i suoi professionisti; prima di tutto siamo noi cittadini chiamati in causa, non solo con i nostri diritti ma anche doveri. Prenderci cura di noi attraverso gli stili di vita corretti (la prevenzione) ed ecco che così si può prevenire già il 60% delle malattie croniche: no fumo, no alcool, buona nutrizione, sport e aggiungo io, sonno, e il professore mi informa che il cervello di giorno produce tantissime scorie che solo durante il sonno possono essere smaltite. Così, la prevenzione parte dalla nostra responsabilità, e avremmo molti meno ambulatori pieni di pazienti con malattie croniche. Poi, e aggiungo anche la mia voce a quella autorevole del Professore, una sanità libera nelle scelte dalla politica governativa, con delle istituzioni tecnico scientifiche indipendenti, e aggiunge libera dalle lentezze della pubblica amministrazione. “Vorrei che l’intramoenia venisse abolita per non vedere liste di attesa così lunghe per i pazienti; vorrei vedere stipendi più alti per medici e infermieri, vorrei vedere meno fughe di medici e infermieri – già scarsissimi – all’estero – per le remunerazioni più elevate”.
Chiedo della possibile abolizione del numero chiuso all’università di medicina; “gli effetti li vedremmo tra dieci anni”, e comunque ben venga la valutazione sui meriti degli studenti dopo un anno come avviene in Francia e in Svizzera, università senza numero chiuso. Ma il vero problema è che le accademie Italiane non sono attrezzate per questo, sono piccole. Propone la riorganizzazione degli ospedali: meno strutture ma con migliore e maggiore produttività, poi la medicina generale si deve riorganizzare unendo medici di famiglia infermieri sul territorio con infermieri ed il sociale; assistenti sociali per sbrigare le questioni burocratiche, assicurarsi degli aiuti per gli anziani, insomma percorsi sociosanitari. Auspica un uso maggiore della telemedicina per ascoltare i pazienti, – interessante quello che dice il professore: “i pazienti hanno bisogno di continuità di essere ascoltati, di non essere lasciati soli”, ecco l’uso principale della sanità digitale.
E poi in termini di slanci culturali, la necessità del pensiero scientifico deve essere disgiunto da quello politico e dalla troppa pressione del mercato selvaggio. È dalla scuola che si impara a “ragionare e pensare” in modo scientifico: il professore è provocatorio “c’è spazio eccessivo per le arti e la letteratura e poco per le scienze in Italia”, io qui propongo che anche l’insegnamento della fisica può essere effettuata con le arti per creare, a proposito di linguaggi, un modo più affascinante e ingaggiante per i bambini e i ragazzi. Conviene il professore e troviamo il terreno di mediazione: il mondo scientifico e il mondo umanistico vanno integrati con armonia, e non le discipline messe una a discapito dell’altra. Continuando a parlare di giovani vengo all’ultimo capitolo del libro Health humanities for quality of care in times of covid 19, c’è un mio tributo personale ai giovani che rispettando il lock down ci hanno salvato la vita e grazie al mantenimento, forse troppo prolungato della didattica a distanza. “Sì, dobbiamo ringraziarli e scopriremo tra qualche anno i danni di questo isolamento forzato in un’età in cui il cervello è ancora in sviluppo e ha il massimo bisogno di interazione sociale.” Non li abbiamo ringraziati abbastanza.
Come al solito, esco da questa conversazione arricchita, sognando un sistema sanitario competente, meritocratico nel senso più onesto del termine, convivendo serenamente con l’incertezza dell’oggi e del domani.
Ci si augura sempre che si possa imparare e migliorare dagli errori e visto quanti se ne sono fatti dall’inizio della pandemia, soprattutto quelli di comunicazione, i presupposti per affrontare in modo diverso e più organizzato un’emergenza sanitaria dovrebbero essere molto solidi. Invece, ancora una volta, sembra che oltre le buone intenzioni ci sia poco altro. C’è un’emergenza irrisolta dalle molte componenti: carenza di risorse umane nel servizio sanitario, programmazione fumosa, infrastruttura carente per una telemedicina globale nel nostro paese, ritrosie nell’abbandonare procedure ormai poco efficienti e soprattutto poco efficaci a favore di percorsi incentrati sui bisogni individuali dei pazienti, ritardo di aggiornamento dei corsi di laurea rispetto ai progressi delle conoscenze. Ci si lamenta dell’ingerenza politica nella gestione della salute, ma basterebbe ricondurre la politica nel suo alveo e contare su un impegno collettivo meno individualista e cooperativistico e più orientato alla tutela del benessere, alla prevenzione (vera), e alla cura multidisciplinare coordinata delle patologie croniche e acute. Rimangono parole, magari anche belle, e null’altro. Quale eredità lasceremo ai nostri nipoti ai figli dei nipoti?