Vuole dirci di che cosa si occupa e qual è stata la sua formazione?
Mi sono laureata in medicina e specializzata in ostetricia e ginecologia. Lavoro nel consultorio da più di quarant’anni e per venticinque anni ho lavorato nel CUS, per il soccorso di violenza sessuale. Faccio incontri con gli studenti nelle varie scuole. Sono la referente della AGITE della Lombardia cioè la società dei ginecologi territoriali che fa parte della SIGO che è la società italiana di ostetricia e ginecologia.
Menopausa e post menopausa, quali sono le narrazioni dei pazienti?
In generale le donne in quel momento della vita si possono suddividere in due macro gruppi: chi lo accetta e chi no. Approcciarsi a pazienti che si rifiutano di non tener conto del loro orologio biologico non è semplice. Io cerco, dal colloquio, di fare emergere che il cambiamento, in qualunque forma si manifesti, è essenziale e inevitabile. Non può essere contrastato e alla fine il nostro corpo metterà sempre in atto il processo naturale per cui è “programmato”.
Come può, secondo lei, la medicina narrativa supportare la relazione tra ginecologa e donna?
La visita ginecologica è essenzialmente un colloquio. Bisogna lasciar spazio al paziente di esprimere le proprie sensazioni, i propri dubbi e la propria storia. Il medico, attraverso le loro narrazioni, coglie elementi fondamentali per la diagnosi. Anche il “non detto” è essenziale, l’attenzione che il medico pone nell’incontro con il paziente durante la visita deve incentrarsi anche su quello. Le pazienti raccontandosi riescono a rielaborare il problema o, più in generale, il fatto e così facendo la parte, ancora presente in loro, che contrasta l’inizio di un processo di guarigione smette di lottare e coopera insieme alle altre parti che la compongono.
Vuole aggiungere qualcosa? Ad esempio sulla fertilità o sulla gravidanza
Sono entrambi due argomenti su cui si potrebbe parlare per ore. Le donne sono in età fertile fino a quaranta/cinquant’anni ma in questo periodo ci sono varie fasi e non tutte sono uguali in termini di fertilità. Ad esempio a diciotto anni si è molto fertili, a trent’anni la percentuale potenziale diminuisce del 30% e a quarant’anni la possibilità è solo del 20%. L’elemento fondamentale, da tenere bene a mente, in ogni caso, è la consapevolezza. Capita, a volte, che una ragazza giovane non si capaciti del fatto che già a quindici/sedici anni, senza precauzioni, possa rimanere gravida. Oppure una paziente di quarant’anni che non ha fatto i conti con il passare del tempo non si rende conto che non è più semplice come prima avere un figlio a quell’età. Capire, e far capire, quali sono i vantaggi e gli svantaggi di ogni periodo della vita di una donna, a una donna è fondamentale. Senza questa presa di coscienza non è possibile continuare un colloquio, e in un secondo momento, un percorso sereno.
Domanda un po’ provocatoria: alcuni lo chiamano utero in affitto, altri maternità surrogata e altri ancora maternità solidale… lei che cosa ne pensa?
Questi tre termini identificano tre modelli di relazioni tra richiedenti e prestanti diverse.
Con il termine “utero in affitto” si sottolinea un rapporto che è necessariamente e esclusivamente incentrato sul compenso e sullo scambio di denaro. La donna che presta il suo utero, per la famiglia o la donna richiedente, non ha altro scopo se non quello di beneficiarne economicamente e il compenso in denaro diventa uno scudo per ripercussioni emotive o altro.
In opposizione a questo, vi è la “maternità solidale” che invece poggia sull’idea di dono e aiuto. Identifica il prestito come un atto solidale che una donna mette in pratica nei confronti di un’altra donna e mette in primo piano l’umanità del gesto.
Mentre la “maternità surrogata” è una via di mezzo, è neutra. Non acquisisce particolari sfumature e non tiene in considerazione le idee, le credenze o le finalità degli agenti.
Nonostante questa prima diversificazione sembri mettere in luce una distinzione qualitativa a livello morale, in realtà vorrei sottolineare che per me un termine non è migliore o peggiore rispetto ad un altro. La cosa fondamentale è distinguerli e imparare a utilizzarli in maniera appropriata e consona, perché sono tre definizioni completamente diverse e in quanto tali vanno utilizzate.
Intervista interessante. Tuttavia, da ostetrica, mi permetto di suggerire di abbandonare la definizione di “pazienti”, retaggio di un tipo di approccio paternalistico e che, nel caso menopausa, potrebbe far passare il messaggio che la menopausa non sia una fase normale della vita di una donna, ma una condizione patologica (il termine paziente trasmette proprio questo significato).
Lo stesso vale, naturalmente per la gravidanza che, ancora nel 2024, è nella maggior parte dei casi, uno stato di normalità della vita di una donna.
Sarebbe interessante, a mio avviso, pensare di fare una lettura etimologica del termine “paziente” e del significato che gli viene attribuito dalle persone che tali vengono chiamate e dai sanitari che lo utilizzano per rivolgersi ai malati, ma anche ai sani (come nei casi specifici di cui sopra). Le parole hanno, in ambito sanitario, il grande potere, spesso sottovalutato, di far sentire a disagio ed in stato di sottomissione. Come quando nei reparti di geriatria si sente un sanitario che si rivolge ad un/una ricoverato, chiamandolo confidenzialmente “nonno” o “nonna”, senza far caso che questo appellativo è svilente della dignità di quella persona.
Cordialmente
Pinuccia Persico