- Arte terapia, volontaria al Numero Bianco, Medicina Narrativa e molto altro ancora. Perché ha voluto approfondire la Medicina Narrativa?
Il master ISTUD è stato uno tra i portati della chiusura totale durante la pandemia Covid-19. Sono sempre in cerca di nutrimento esistenziale, ma dovessi specificare come ne sia venuta a conoscenza, non ne sarei in grado. Ringrazio la mia curiosità e gli algoritmi.
Ho scoperto che c’è uno spazio per dare voce ad una parte espressiva nel racconto della sofferenza e della malattia, onnicomprensiva di svariati media artistici. Ho conosciuto autori molto interessanti. Ho incontrato professionisti che intendono dare voce riflessiva alla relazione di cura, anche come rifugio da una saturazione del quotidiano che travolge e stravolge il portato deontologico. Ho scambiato esperienze e progetti con lavoratori che non si accomodano, né si rassegnano, nell’obbligo alla mediocrità. Per mia formazione arte terapeutica lavoro con le immagini create, piuttosto che fruite, ma è sempre bello ed utile trasformare le emozioni in immagini, le immagini in parole, le parole in rito.
Attraverso la Medicina Narrativa ho anche beneficiato di un gruppo nutriente, che valorizza le inclinazioni e le esperienze individuali, a prescindere dagli strumenti. Ho apprezzato anche la capacità di sostenere, quindi poter proporre, collaborazioni dal proprio punto di vista. Anche per questo ringrazio per l’occasione dell’attuale intervista, che mi ha portato a nuove idee. Non da ultimo, l’equilibrio tra raccolta qualitativa e valutazione quantitativa è decisamente lungimirante. Mi si è aperta anche la possibilità di partecipare ad un gruppo internazionale mensile (Eunames) in cui vengono scambiate esperienze di Medicina Narrativa con entusiasmo e curiosità.
NB: cosa è.
- In che modo la applica nel suo quotidiano lavorativo?
La dimensione espressiva, per supposta economia psichica, viene spesso relegata ad una funzione meramente decorativa. Applico la Medicina Narrativa quando le condizioni lo consentono, così come l’Arte terapia psicodinamica e/o a Pratica filosofica di comunità. Bisogna trovare o creare un sistema aperto ovvero la volontà di attivare risorse, inizialmente soprattutto mentali.
- Pensa che il tema fine vite ne abbia già giovato di questo nuovo e rivoluzionario approccio medico?
Tutti i temi, in primis quelli etici ed esistenziali, possono giovarsi di un approccio relazionale volto all’ascolto e all’espressione del proprio mondo interno. Vexata quaestio: siamo nell’ambito sanitario? Mi piace molto il coraggio nel definirsi “medicina”: lo è e bisogna attraversare i pregiudizi, riscoprire strumenti antichi e visionari, senza timore di incasellare la creatività, ma riconoscendone il portato trasformativo, anche a livello istituzionale. Siamo oltre il guarire. Siamo nel curare e nel benessere.
- Riprendiamo il suo essere volontaria al Numero Bianco: ci racconta cosa accade, e quali narrazioni lei ascolta?
Per sincronici, riesco a diventare volontaria del Numero Bianco nell’anno in cui viene a mancare mia madre. Dopo pochi mesi di turni in servizio, contatto un’altra attivista, membro di giunta dell’associazione, Luca Coscioni, attrice e regista. Le parlo della mia fantasia: creare uno spettacolo teatrale sulla voce dei chiamanti. Lei mi chiede, diretta e semplice: “Cosa vuoi che emerga?”. Voglio emergano le narrazioni di chi chiama. Persone sofferenti, disperate, sole, impaurite, desiderose di informazioni per tutelarsi o semplicemente bisognose di sfogarsi. Spesso sgomente nel doversi trovare per la prima volta di fronte al pensiero del fine vita. Spesso, inoltre, alle prese con faticose pastoie burocratiche o situazioni assistenziali carenti. Quando parlano del proprio fine vita, alcune usano metafore poetiche, chiare, evocative.
Sibilla Barbieri è stata accompagnata a novembre in Svizzera anche dal proprio figlio, Vittorio Parpaglioni, che poi si è autodenunciato. Scrivo anche in memoria e per rispetto di questa scelta, faticosa, ma pubblica e feconda. Il corpo di Sibilla dipendeva da trattamenti di sostegno vitale. Questo requisito non le è stato riconosciuto per poter accedere al suicidio medicalmente assistito.
Aggiungo nuove narrazioni? in primis, quando ho parlato con Sibilla Barbieri, che a novembre è stata accompagnata dal figlio in Svizzera.
- Quando si parla di fine vita, tra le righe, emerge la parola morte. Pensa che la legislazione attuale in Italia sia adeguata rispetto alle decisioni volontarie sul fine vita? Cosa si potrebbe auspicare di più? Vi sono altri paesi come riferimento possibili?
In letteratura si discute sui due termini. Mi pare che “fine vita” rispecchi la complessità del processo del morire e forse, anche, spaventi di meno della mera parola “morte”.
Purtroppo i legislatori, anche a livello internazionale, non sono adeguati al sentire e alla volontà dei cittadini. In Italia c’è stata grandissima partecipazione sia per il referendum sull’eutanasia sia per le proposte di legge regionali “Liberi Subito”, su iniziativa dell’Associazione Luca Coscioni.
La politica partitica e ideologica, paternalistica e da stato etico, non sa rispettare la volontà delle persone. Rimozione? Ipocrisia? Paranoia? Mancanza di narrazioni? Informiamoci, autodeterminiamoci. E’ un atto di relazione con se stessi e con il proprio prossimo che fa sentire più leggeri, poiché più liberi.
La situazione internazionale è variegata (recentemente Ana Estrada, psicologa peruviana, ha posto fine alle proprie sofferenze attraverso l’eutanasia).
Ci sono sia iniziative a livello europeo sia associazioni internazionali. (Eumans, WFRTDS)
- Altro che desidera aggiungere
Aggiungo una notazione sul possesso del proprio corpo, anche con la prospettiva del trapianto di organi, della loro donazione o della donazione del corpo alla scienza. Si tratta di donazione, quindi di generosità. Qualche domanda apparentemente banale.
A chi appartiene la mia vita? Cosa faccio se mi succede “qualcosa”? Sono egoista se voglio decidere? Con chi posso parlare di cosa auspico, anche per le altre persone? Che sarà di me se e quando non potrò scegliere? Mi sento in balia di tutti gli eventi che potrebbero accadermi? Posso mettermi al riparo e tutelare la dignità del mio fine vita? La mia vita appartiene a me? Il mio corpo, ovvero il mio bene più grande, è soma e sema; per dirla grossolanamente: sia prigione sia strumento di senso.
Durante un turno in Croce Verde, l’ambulanziera mi racconta della propria sorella, recentemente morta. “Sai, si può donare tutto. Anche quando pensi di essere tutto scassato. Puoi donare anche solo la pelle”. IN alto parole: non buttiamoci via, neanche da morti.
Dobbiamo essere consapevoli dei nostri diritti, assumendoci il fardello della nostra responsabilità e libertà. La mia vita ovvero il mio corpo appartengono, fisiologicamente ed ontologicamente, a me. Ovviamente mi sono disponibili.
Sino a qualche anno fa, la donazione organi poteva sembrare una questione da cannibali. Da tempo, invece, al rinnovo della carta di identità – elettronica- viene chiesto d’ufficio. Sono sicura che anche l’autodeterminazione nel fine vita verrà accolta come coronamento di un’esistenza libera. In letteratura scientifica stiamo lentamente iniziando a parlare di proporzionalità ed adeguatezza delle cure. Sarà anche prassi necessitata, naturalmente, dall’invecchiamento della popolazione e dalla composizione di famiglie mono nucleari. Dobbiamo raccontarci anche nelle nostre apparenti miserie, che però magari sono frutto di scelte ed accadimenti non aderenti alla nostra lettura esistenziale.
Andiamo avanti. Ad oggi, in Italia, solo il 5% delle persone usufruisce del diritto al deposito delle Disposizioni Anticipate di Trattamento. E’ un diritto, ovviamente gratuito, quindi un dovere. Esiste un numero nazionale che fornisce informazioni su ciò che è legale in Italia.
In occasione di un congresso centrato sull’autodeterminazione, vengo generosamente ospitata, attraverso una rete associativa, da una donna con cui non ci conoscevamo. Dopo esserci presentate e avermi mostrato la bellissima casa da musicista, ascolto la sua spontanea narrazione. E’ rimasta vedova da pochi mesi. Il marito, donatore di organi, era entrato in ospedale per un’operazione apparentemente semplice. Purtroppo prende un’infezione grave. Si spegne in poco tempo. La donna riceve subito una telefonata: a causa dell’infezione, non possono essere donate neanche le cornee. Ascolto questa narrazione nella penombra dell’appartamento. Sono di fronte ad un’apparente sconosciuta, che si racconta intimamente. Racconta ad un’apparente sconosciuta dell’estremo dolore. Le chiedo il nome del marito e lo ripeto. Provo una rabbia muta, ma so che questa narrazione è un’occasione di senso; voglio lo sia. Alla fine del mio breve soggiorno, per salutarci, finalmente ci abbracciamo. Ci siamo scambiate borse di stoffa, bianche, come dono spontaneo.
Laurea in filosofia con sull’arte terapia junghiana
Diploma Art Therapy Italiana-Goldsmith’s College – indirizzo psicodinamico Master gruppale post diploma
Master sul lutto
Iscrizione all’APIArT (n.190, anno 2004)
Certificazione FACC (n. 54, anno 2013)
Facilitatrice di Pratica Filosofica di Comunit (P4C-CRIF)
Socia fondatrice di TiarOnlus.
Insegnante, traduttrice.
edicina narrativa con ISTUD.
Narrazione guidata con Scuola Capitale Sociale.
Protezione Civile presso l’Aquila con Psicologiper i Popoli.
Volontaria Croce Verde.
Sportello territoriale D.A.T.
Già operatrice di bassa soglia.
Formazione sulla Pedagogia della Resilienza con medium artistici.
Partecipazione ad un gruppo di ricerca sulla valutazione in arte terapia e a RiCreative OnLine