Dal 2015 il garante della privacy ha approvato il fatto che si possa acconsentire o negare o non esprimersi circa la donazione dei propri organi in caso di morte al necessario conseguimento o rinnovo della propria carta di identità in Comune. Ed è fonte di Bene Comune, di altruismo, segno di una società civile muoversi in questa direzione, avendo in mente non più solo sé stessi ma sapere di essere ancora utili dopo la propria vita. Alcuni considerano la propria donazione d’organi come continuare a sopravvivere in un altro corpo: come si studia dai tempi dei primi trapianti,[1] il tema della soggettività nella persona che accoglie l’organo del donatore morto si fa vivido, pensando di acquisire non solo l’organo (in una metafora, dove corpo è macchina, l’organo nuovo diventa il pezzo di ricambio), ma anche le emozioni, i gusti e le attitudini del donatore.
Attraverso una revisione delle ricerche di scienze sociali condotte con i riceventi di trapianti d’organo, si dimostra che i cambiamenti d’identità più frequentemente menzionati sono un’alterazione del genere o dell’età, o le preferenze per il cibo o la musica. Le comunità mediche e delle scienze sociali hanno a lungo cercato di offrire spiegazioni per queste storie, che si riferiscono a teorie sociali sul contagio e la contaminazione e a spiegazioni biologiche sull’esistenza della memoria cellulare.
Scrive Gillian Haddow dell’Università di Edimburgo: le pratiche biomediche e i progressi nei trapianti stanno mettendo alla prova i limiti del modello cartesiano di separazione e dualità (corpo- res extensa, una macchina, e anima- res cogitans). Più recentemente, la ricerca condotta da Margrit Shildrick della Warwick Univerity[2] suggerisce che pochissimi dei 30 destinatari di un trapianto di cuore sono stati in grado di vedere il cuore come un “organo trasferibile e disincarnato che si è liberato di tutte le vestigia della sua precedente collocazione… consapevoli che i loro corpi suturati parlavano di un diverso modo di essere-nel-mondo”. Rifacendosi a un’analogia di “parto al contrario”, Margrit Shildrick e i suoi colleghi suggeriscono che, proprio come una donna incinta ha bisogno di acclimatarsi all’essere incinta e a vivere con un sé aggiuntivo sotto forma di un bambino in crescita, allo stesso modo chi riceve un trapianto di organi ha bisogno di tempo per sentirsi a proprio agio con un’aggiunta estranea, in questo caso un organo e non un bambino. La ricerca suggerisce che quasi tutti i riceventi hanno sofferto di un senso generale di disagio dopo il trapianto di cuore e che i riceventi sono sfidati dalla “persistenza dell’altro” e dal “bagaglio culturale” associato al cuore, visto come sede biologica e metaforica della vita. In questa concezione, gli organi “sono sempre più di semplici cose”.
Ci allontaniamo, dal punto di vista della medicina narrativa, dalla Disease, dal modello biomedico riduzionista, e della Restitution (ad esempio, io mi sottopongo all’intervento e voi restituitemi un cuore funzionante) per entrare nel mondo della Illness e della Quest, con le domande aperte della soggettività “Chi era il donatore? Come viveva? Come vivrò con il suo “essere dento di me? Come mi adatterò all’estraneità che è entrata all’interno del mio corpo? Di quale gratitudine sarò capace?”… e ancora. infinite altre domande.
Tornado all’operazione “consenso al trapianto e carta di identità”, per un ‘operazione di comodità i cittadini sono stati coinvolti all’anagrafe sulla scelta post mortem dei trapianti, proprio quando stanno ottenendo l’attestato della loro identità, senza sapere quali possibili questioni esistenziali pone sia il donare l’organo che il ricevere l’organo. E sarà solo la narrazione a dare un senso alla scelta del dono e dell’accoglienza.
Dipinto questo quadro generale, scendo nell’aneddotico personale e racconto un episodio recente che ci ha influenzato nella scelta di occuparci di narrazioni di trapianti e di fine vita. Il 27 gennaio di quest’anno mi rubano il portafoglio contenente tra gli altri documenti anche la carta di identità: fisso l’appuntamento in Comune, e il primo momento disponibile è il 5 aprile.
Venerdì’ mattina del 5 aprile 2024 mi reco in tempo al Comune dove mi danno un codice di attesa: mi siedo e attendo, con la foto in mano e la denuncia dei carabinieri: si accende il mio numero e mi avvicino al banco dove c’è la persona che si deve occupare di confezionare la mia nuova carta. Non solleva lo sguardo mentre arrivo e le dico “buongiorno” e lei non rispondendo continua a masticare il suo grissino. Ne ha un pacco lì con sé. Le faccio scivolare sotto il vetro la denuncia dei carabinieri e la foto, niente, lei mangia imperterrita: guarda il terminale comincia a inserire il mio nome, poi mi chiede “quanto è alta”, Le rispondo, per la prima volta alza lo sguardo verso di me: mi offre un grissino
. È fatta, penso, abbiamo trovato l’incontro, “Residenza?” “Metta il dito lì per l’impronta”, cade il terminale del Comune, tecnologie obsolete, tutto da rifare, nome, altezza, residenza, impronte. E poi improvvisamente chiede mentre dal pacco ha estratto un nuovo grissino per addentarlo, “Lei è favorevole, contraria o non si esprime in merito all’espianto d’organo dopo la morte?”, li per lì vado in modalità sopravvivenza “attacco o fuga”, “non mi esprimo” … poi le chiedo – e qui viene fuori la mia ignoranza- ma all’ultimo rinnovo della carta di identità nel 2018 non mi avevano chiesto la mia opinione circa la questione- “come mai questa domanda?”, evita lo sguardo, “Nulla, è un sondaggio voluto assieme al Ministero della salute per conoscere le opinioni dei cittadini”.
Attenzione, le opinioni, non le volontà: allora le chiedo di cambiare la mia risposta e di scrivere “favorevole”. Si blocca di nuovo la tecnologia, decidiamo il recapito della mia carta di identità, tiro fuori il bancomat per pagare, strano funziona. Arriviamo al momento finale della firma; devo controllare ogni dato, nome, età, altezza, domicilio e nel quarto foglio vedo scritto che io sottoscritta dopo la mia morte sono favorevole all’espianto d’organo per favorire il trapianto. Firmo comuqnue: non è una sottoscrizione di una opinione ma di una volontà, che potrò cambiare (c’è scritto come postilla).
Esco stordita dal Comune: mi occupo di sanità da più di trent’anni e questa pratica me la ero persa per strada. Ma poi penso alla conversazione surreale, alla mistificazione di una volontà passata per sondaggio, insieme a tutto l’errato e l’errabile verbale e non verbale possibile perfettamente azzeccato in un dialogo tra utente e servizio. E penso che questa operazione di richiesta così delicata la potrebbe chiedere il medico di medicina generale per mandarla poi al Ministero della Salute: e penso che ci debba essere uno spazio di riflessione dedicato, soprattutto per i giovani i cui organi sono generalmente molto più funzionanti dei miei. Come accertare la morte? Quando avviene l’espianto? Penso alle persone in coma irreversibile- in stato vegetativo- insomma si apre un mondo di interrogativi etici.
La signora del Comune non era “all’altezza”, seppure continuasse a chiedere le altezze altrui, per questa domanda così intima e delicata che non è una semplice formalità: ma non è un suo limite, nessuno le aveva dato una debita formazione, e forse nessuno aveva voluto vedere in profondità cosa significa avere una identità e donare un pezzo della propria identità a un altro. I destinatari – “recipients” in inglese suona spersonalizzante, i recipienti, grazie all’accoppiamento carte di identità e consenso volontario all’espianto potranno continuare a vivere, e questo è un bene prezioso.
Assieme all’identità sociale, anche l’identità del corpo che abitiamo e chi ci è stato dato in prestito. Dopo non rimane che il nome per qualche decennio, si ipotizza che la memoria del nome e della storia della famiglia rimanga tre generazioni[3]: il corpo si dismembra subito, l’altezza si perde, il domicilio passerà ad altri, forse di questa nazione, forse venuti da fuori.
E dunque, malgrado i modi goffi di alcuni impiegati comunali e il percorso che potrebbe coinvolgere la persona che per legge tutela la nostra salute, il medico di medicina generale, ben venga il donare anche la propria identità segnata nelle cellule dei nostri organi per aiutare, se non altro nel breve presente delle nostre vite, gli altri, che sono molto più di recipienti da riempire.
[1] Embodiment and everyday cyborgs: Technologies that alter subjectivity. Haddow G. Manchester (UK): Manchester University Press; 2021.
[2] Shildrick, M. 2015. Staying Alive: Affect, Identity and Anxiety in Organ Transplantation. Body & Society, 21, 20–41.
[3] https://www.familysearch.org/en/blog/oral-family-history-fades-in-just-three-generations