D. Come è nata la partecipazione alla revisione di questo documento?
MGM. Innanzitutto, è stato un piacere straordinario sapere che la World Health Organization stava finalmente affrontando la metodologia della ricerca narrativa per il settore sanitario: questo è un punto di arrivo per tutti coloro che nel mondo, da decenni, studiano come migliorare i diversi servizi sanitari attraverso metodi narrativi. Vi sono due aspetti interessanti da notare, riguardo alla nascita di questo percorso: in primo luogo, il lavoro di una task-force specificatamente concentrata sui contesti culturali mirato a integrare gli aspetti narrativi con gli strumenti standardizzati. In secondo luogo, il percorso è nato all’interno dell’Health Evidence Network, dove la parola evidence ci rimanda all’Evidence-Based Medicine, ossia una medicina che poggia non sul consenso, ma sulle evidenze. Questo significa che a occuparsi di queste policies all’interno della WHO non è stato un ramo che si occupava di comunicazione allargata, ma da metodologi che si occupano di ricerca. Tant’è vero che il titolo è molto chiaro: Cultural contexts of health: the use of narrative research in health sector. Il gruppo era guidato da Nils Fietje, responsabile del tema dei contesti culturali per la salute per la WHO.
D. Qual è stato il tuo ruolo di revisore?
MGM. L’autrice del report è Trisha Greenhalgh, io e Brian Hurwitz del King’s College London abbiamo svolto il ruolo di revisori. Io non avevo la cognizione né di chi fosse l’autore, né di chi fosse l’altro revisore. Pur non sapendo chi fossimo – come è giusto che sia in un progetto di tale importanza – abbiamo lavorato molto per definire quella che è una visione comune di ricerca narrativa. Nella prima versione, vi era ancora una spaccatura tra la Evidence-Based Medicine come true science e storytelling e Narrative Medicine come art. Ho cercato di mediare questa spaccatura, perché penso – come ho scritto nel libro Narrative Medicine. Bridging the gap between Evidence-Based Medicine and Narrative Medicine – che quello che conta sia la qualità della ricerca, qualitativa o quantitativa. Si può impostare in modo fazioso un clinical trial allo stesso modo in cui si può impostare in modo altrettanto fazioso una ricerca di Medicina Narrativa. Quello che conta è l’onestà intellettuale della programmazione della ricerca, l’indipendenza scientifica, e una lettura verosimile dei risultati. Mi interessa – come sosteneva Popper – dire comunque che questi sono risultati validi fino al giorno in cui queste osservazioni verranno smentite.
D. Quali sono i passaggi fondamentali di queste policies?
MGM. Il razionale è molto importante per capire perché questo documento è stato necessario. Nel 2014 il Lancet ha pubblicato il report Culture and Health, e aveva già sottolineato il fatto che l’incomprensione del contesto in cui vivono i pazienti fosse una delle cause primarie di impossibilità di accesso a cure adeguate. Ecco perché è importante utilizzare metodi più raffinati per capire il contesto in cui vivono le persone e operano i curanti. In questo documento vi è una interessante introduzione a cosa è la narrazione nella salute, e di quale ricerca narrativa stiamo parlando: dal caso clinico scritto in modo tradizionale, al racconto individuale da parte dei pazienti della malattia come illness; dallo studio narrativo di organizzazioni o sistemi sanitari, a narrative culturali e storiche con accenno particolare a come le malattie sono considerate nelle diverse comunità, alle narrative condivise e alla molteplicità di voci delle comunità online e dei movimenti sociali. Vediamo quindi la vastità del bacino di storie. È interessante notare che manca la fiction: c’è un legame forte con la vita vera, usando le storie e le narrazioni raccolte in tempo reale, ma non sono contemplati i romanzi. Nel documento viene anche definito il fatto che bisogna sapere cosa si sta studiando, vedere il disegno dello studio, la qualità e la trasparenza dei dati, delle storie e dell’analisi: insomma, buone pratiche che fanno parte di qualsiasi metodologia corretta di conduzione di una ricerca. Vengono anche stressate le potenzialità degli approcci narrativi: le storie, in generale, possono essere non lineari, e riferirsi quindi a una realtà molto più complessa di quella che noi tendiamo a semplificare negli studi clinici. Le storie rimangono nella memoria. Le storie sono in grado di catturare quella conoscenza tacita che, ad esempio all’interno delle organizzazioni di cura, non è codificata con altri strumenti di raccolta, o che non è mai stata letta. Spesso le narrazioni hanno una dimensione etica, riguardano situazioni in cui i pazienti sono fragili, abbandonati, soli. Vi sono anche dei limiti negli approcci narrativi: non possiamo applicare la stessa interpretazione a ogni storia perché varia di fronte a ogni lettore. Inoltre, affinché dalle storie non emergano meri numeri, è necessario che per l’analisi vi sia un gruppo multidisciplinare, composto da scienziati e umanisti.
D. Come la ricerca narrativa può aiutare le politiche sanitarie e la pianificazione sanitaria?
MGM. Posto che la lettura delle narrazioni può avvenire in base al fatto che queste abbiano un senso morale, che siano una cronaca fedele dei fatti avvenuti, o che ci indichino lo stato emotivo di una persona, la ricerca narrativa può essere impiegata con individui, famiglie, comunità e professionisti sanitari per sviluppare dei percorsi sanitari attenti al paziente. Facciamo l’esempio di un caso concreto: l’obesità, in Europa, è stata studiata attraverso un approccio narrativo volto a comprendere il ricorso al cibo e al nutrimento. Solo tramite l’approccio narrativo possiamo aiutare la persona obesa a prendersi cura del proprio corpo. Non si può imporre una dieta, ma è necessario comprendere quali siano le abitudini alimentari della famiglia, per capire se e come questo progetto può fallire o essere portato avanti. Un altro caso citato nel documento è quello della salute mentale dei migranti, con cui l’Europa si trova ad avere a che fare, volente o nolente. Dal punto di vista del sistema sanitario, in generale si chiedono dei dati pressoché anagrafici e poche variabili sociali: l’età, il sesso, lo stato sociale, l’etnia, la religione. Emerge, però, che queste persone hanno accumulato una quantità di stress tale da poter essere “etichettati”, dal punto di vista clinico, come soggetti al disturbo post-traumatico da stress (PTSD). La narrazione, invece, identifica questi migranti come persone con la sindrome di Odisseo: un uomo che è stato tanto tempo in mare, lontano dai suoi cari. Solo il chiamare i migranti come “Odisseo in navigazione” cambia l’approccio relazionale: attraverso l’idea di Odissea ci mettiamo subito in contatto con qualcosa di antico, qualcosa che riguarda il viaggio, la fatica, la lontananza, e anche il fallimento. Ecco che attraverso la scelta di questo esempio la WHO cerca di dare delle policies di attenzione – se non di accoglienza – ai cambiamenti demografici del nostro continente dovuti ai flussi migratori.
D. A chi sono indirizzate queste policies?
MGM. Le raccomandazioni, scritte con un linguaggio semplice ma rigoroso, sono indirizzate ai 53 paesi afferenti al Regional Office for Europe della WHO: saranno quindi lette dai ministeri della salute e della sanità di tutti i paesi che le vorranno accettare. In Italia, questo lavoro era già stato anticipato – in termini di politica sanitaria – dalle linee-guida dell’Istituto Superiore di Sanità uscite nel giugno del 2014. C’è da dire che il focus di quel lavoro era più sull’utilizzo della Medicina Narrativa nella pratica clinica, mentre il focus di questo progetto è stato quello di comprendere come si può attivare la ricerca narrativa per il settore sanitario. Un altro punto importante è che questo lavoro non fa distinzione tra sanità pubblica, privata e no profit: l’approccio narrativo è una competenza che può riguardare ogni curante e ogni malato in qualsiasi setting sanitario. La metodologia narrativa diventa una competenza da cui non si può prescindere.