Donatella Lippi (Firenze, 1959), laureata in Lettere Classiche, con specializzazioni in Archeologia, Archivistica, Storia della Medicina, Bioetica, è Professore Ordinario di Storia della Medicina presso la Scuola di Scienze della Salute Umana dell’Università di Firenze.
Ha pubblicato quest’anno per Angelo Pontecorboli Editore il volume Dante tra Ipocràte e Galieno. Il lessico della medicina nella Commedia. La prefazione è a cura di Giovanna Frosini, Accademica della Crusca e Professoressa Ordinaria al Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università per Stranieri di Siena. Contributo fondamentale è stato anche quello di Chiara Murru, assegnista di ricerca presso lo stesso Dipartimento insegnamento, che ha compilato le schede lessicografiche in appendice.
Abbiamo intervistato la professoressa Lippi e la professoressa Frosini a proposito del contributo di Dante alla lingua volgare della medicina e quale fosse il rapporto del nostro poeta con questa disciplina.
Quest’anno è stato pubblicato il suo libro Dante tra Ipocràte e Galieno. Il lessico della medicina nella Commedia. Vuole raccontarci come è nata questa ricerca e questo interesse?
Alcuni anni fa, la Scuola di Scienze della Salute Umana promosse un incontro dal titolo “Un medico all’Inferno”: titolo provocatorio, la cui comprensione non era immediata e che, anzi, poteva dare adito a più interpretazioni. Nelle intenzioni degli organizzatori, si intendeva alludere all’analisi storico-medica di alcuni passi della Commedia, per creare un’occasione di recupero della dimensione umanistica nel percorso formativo dei giovani medici, all’interno del Corso di Storia della Medicina. Il titolo incuriosì e fece sorridere, accendendo una ricca serie di commenti, in quanto poteva sembrare che alludesse al quotidiano dell’esercizio della professione o al vissuto dei malati, in un sensazionalismo quasi giornalistico. In realtà, l’incontro prevedeva l’analisi di alcuni passi della Commedia, riferibili al mondo della medicina, intervallati dalla recitazione di quelli più noti o suggestivi, grazie anche all’intervento di Riccardo Pratesi, cultore di Dante e della Commedia, che conosce integralmente a memoria e di cui è fine e consapevole dicitore. Climax dell’incontro, l’esibizione di un cranio del Museo Anatomico, mentre venivano declamati i versi più dolorosi della Commedia, quelli del canto XXXIII, dedicati al Conte Ugolino. L’incontro ebbe un successo straordinario e, in quell’occasione, venne anche realizzato un video, accessibile al sito di Vincenzo Natile, che ne fu abile artefice.
A distanza di qualche anno, ma, soprattutto, nel settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri (1265-1321), ho pensato di recuperare l’ordito di quell’incontro, trasformandolo in questo testo, che non ha assolutamente alcuna pretesa di completezza o di scientificità assoluta, ma che vuol essere un modo per rendere consistenza materiale alla figura di Dante e alla cultura medica dei suoi tempi, uno spunto per approfondire alcuni aspetti, che potranno essere poi analizzati più in dettaglio in altre sedi.
Rispetto agli anni 2009-2011, in cui ho pubblicato un’edizione della Commedia con note storico-mediche (Mattioli 1885, Fidenza), molti lavori sono usciti a firma di letterati o medici, che hanno individuato nei versi delle tre Cantiche i riferimenti a patologie precise e anche a condizioni morbose di cui lo stesso Dante avrebbe sofferto, ma che rimangono lavori specialistici, preclusi al pubblico generico e, soprattutto, lontani dal mondo degli studenti, che, invece, possono trovare nei versi della Commedia propizie occasioni per sentire Dante più vicino.
Se questo testo, inevitabilmente suscettibile di estensioni ed approfondimenti, riuscirà ad accendere un dibattito e a sollevare qualche critica costruttiva, l’obiettivo sarà stato raggiunto.
Merito particolare va all’Editore Angelo Pontecorboli, che ha accolto la proposta della pubblicazione.
Dante era membro dell’ordine dei medici e degli speziali, ma quali erano effettivamente le sue conoscenze mediche? E dove se ne possono trovare tracce nella Commedia?
Was Dante a doctor? Questo il titolo di una serie di contributi, usciti sul British Medical Journal a partire dal febbraio 1910 (BMJ 5, 1910, pp. 331-333), volti a rispondere a questa annosa domanda. Muzio Pazzi, bibliotecario della Società Medica Chirurgica di Bologna, aveva risposto sul Bullettino delle Scienze Mediche (vol. X, p. 352):
«Dato il valore enciclopedico del nostro più grande poeta, non fa meraviglia che in mezzo alla miriade di commentatori che brulicano intorno alla base del superbo monumento dell’opera dantesca, come sciami di laboriose formiche ai piedi di torri gigantesche, o delle muraglie della Cina, né che si contino medici, letterati e dilettanti di cronache estasiati per le profonde cognizioni di Dante intorno all’ars medica, oltre che alla teologia, alla filosofia e alla giurisprudenza, né che i medesimi siano tentati a scoprire se l’autore dell’insuperato ed insuperabile Poema nazionale abbia studiato medicina»
Dove Dante avesse acquisito questa preparazione è una vexata quaestio: medicina e filosofia, nel Basso Medioevo, avevano numerosi punti di tangenza.
- Dante era iscritto all’Arte dei Medici e degli Speziali e poteva indossare la lunga e ampia veste rossa (lucco), ornata di vaio bianco, con il capo ricoperto da un cappuccio (becchetto) con le punte ricadenti ai lati del viso, abbigliamento tipico del medico: è così che viene ritratto tra i beati, nel Giudizio universale dipinto nel palazzo del Bargello a Firenze, prototipo di tutte le raffigurazioni successive. Scrive Raffaele Ciasca: «l’Alighieri, se non voleva troncarsi la possibilità di correre i pubblici onori, non aveva che da scegliere fra le sette arti maggiori, le sole cioè che si mantenevano sicuramente al potere, dalla disfatta dell’elemento magnatizio in poi. Tenendo egli in dispregio i mercanti di panni e di seta, reputando a vile vaiai e pellicciai, e non avendo i denari e l’inclinazione per fare, come suo padre, il cambiatore, si trovava al bivio fra l’arte dei medici e quella dei giudici che rappresentavano l’aristocrazia dell’intelletto, antitetica, in certo senso, a quella dei capitani dell’industria e della banca …». Quanto alla scelta dell’Arte, «li davano diritto di cittadinanza la sua preparazione filosofica, la sua cultura nella medicina e in quel complesso di arti liberali che allora erano fondamento così della filosofia come della medicina».
- Si dice avesse frequentato le lezioni di Taddeo Alderotti a Bologna, di cui furono allievi sia Fiduccio de’ Milotti, che si trasferì a Ravenna nel 1300, sia Mondino de’ Liuzzi, ambedue toscani: quando Dante raggiunse la Corte di Ravenna, Fiduccio divenne suo medico personale e lo assistette fino alla morte;
- Tra il 1304 e il 1306, Dante fu a Padova, dove frequentò vari medici, fra i quali, verosimilmente, anche Pietro d’Abano (1250 c. – 1315 c.), interprete di una nuova cultura coltivata con l’apporto della scienza greco-araba, assimilata attraverso l’approccio diretto alle fonti, destinato ad essere sottoposto più volte al tribunale dell’Inquisizione.
- Anche a Verona fu in stretti rapporti con vari medici, primo fra tutti il lettore di medicina Antonio Pelacani (1275-1327), medico di Matteo I Visconti, accusato d’eresia e negromanzia, a cui, forse, allude nella Quaestio de aqua et terra.
- Dante amò Beatrice Portinari, il cui padre, Folco di Ricovero, fondò l’ospedale di Santa Maria Nuova e la cui governante, Monna Tessa, fu la prima Oblata.
Ma, al di là di questi spunti, che mettono in luce particolari circostanze formative e determinati elementi biografici, è la sua opera che offre le testimonianze più evidenti relative al rapporto col mondo della medicina e della sanità. Testimonianze più o meno dirette, riferimenti più o meno marcati, compongono un ordito su cui è possibile ricostruire il corpus delle conoscenze del poeta, che sostanziano la Commedia di concretezza e di immanenza. I punti sono innumerevoli: alcuni più diretti, altri soltanto allusivi: penso a Inf. IV, 130 e sgg, dove Dante cita i Grandi della Medicina; a Inf. XXVIII, 22-33, in cui la pena degli scismatici evoca una dissezione anatomica; a Inf., XX, 52-55, con gli indovini che hanno il viso rivolto all’indietro…
Dante è maestro di compassione ed empatia. Sono proprio queste virtù che gli permettono di non confondere il peccato con il peccatore, ma di riconosce sotto la constatazione del vizio la grandezza dell’uomo quando questa sussiste. In che modo questo insegnamento può essere traslato nella pratica medica contemporanea?
Il sentimento della compassione evoca il senso della misericordia, della vicinanza ai miseri. Dalla tarda latinità attraverso il Medioevo cristiano, le opere di misericordia, espresse nel Vangelo di Matteo, arrivano fino ai nostri giorni e, per quanto, dai tempi di Dante a oggi, il contesto sociale sia profondamente mutato e per quanto il senso di quelle categorie morali debba declinarsi in comportamenti rinnovati, il senso della partecipazione ai problemi del prossimo è uno spunto di riflessione importante.
Proprio ai tempi di Dante prendeva avvio l’opera della Confraternita della Misericordia, che porta anche nel nome il richiamo a quei valori di carità evangelica.
Quando Dante preannuncia a se stesso l’esilio, la sofferenza, la solitudine, la nostalgia… è consapevole di questa condizione, la sta sperimentando e, per questo, riesce a condividerla con tanta efficacia.
Qui sta anche la lezione del Poeta.
Se trasferisco questa circostanza al mondo della medicina e della sanità, non posso non ricordare quanto ha scritto il filosofo Hans Georg Gadamer: quel che occorre alla medicina, affinché sia più umana, è la figura di un “guaritore ferito”, un medico che sia non solo rispettoso della soggettività del malato, ma anche interiormente consapevole del peso della sofferenza e del dolore. Un medico, dice Gadamer, non deve essere soltanto un tecnico della patologia, ma una persona capace di capire che al di là dei ruoli, qualcosa di più profondo lega la sua condizione a quella del malato.
”Qui, accanto all’aspetto demiurgico del sapere e dell’arte, emerge il dolore contenuto nella comune matrice umana, corporea e mortale, che unisce, al di là dei ruoli, medico e paziente.. Un medico “senza ferita” non può attivare il fattore di guarigione nel paziente e la situazione che si crea è tristemente nota: “da un lato sta il medico sano e forte, dall’altro il paziente, malato e debole”.
(Introduzione al saggio “Dove si nasconde la salute” di H. G. Gadamer)
La Commedia ha avuto influenza sulla medicina successiva? E sul linguaggio medico?
La Commedia rappresenta un momento essenziale nella storia della lingua italiana: non è infatti esagerato dire, con un grande studioso della lingua e della letteratura medievale, Ignazio Baldelli, che Dante è l’italiano. Nessun altro autore, nel corso delle vicende plurisecolari della nostra lingua, ha avuto un ruolo paragonabile a Dante, e, come scriveva Bruno Migliorini, non se ne sopravvaluterà mai l’importanza. La “funzione Dante” non consiste tanto nelle parole che Dante ha inventato, sfruttando i meccanismi delle strutture della lingua volgare, come trasumanare (verbo parasintetico, da umano > umanare + prefisso), parole peraltro straordinarie, e che comunicano uno sforzo creativo mai più e da nessuno eguagliato, ma nel fatto che Dante ha utilizzato nella Commedia un numero altissimo di parole che prima non avevano avuto consacrazione letteraria, che ora escono dall’ombra dell’uso solo parlato, e divengono per noi tracciabili, documentabili, riconoscibili. Con Dante l’italiano si riconosce in quanto tale. Per di più, la grande novità del poema è l’allargamento del poetabile, ossia il fatto che nella Commedia ogni argomento è trattato, e la lingua si tende, si estende, diventa multiforme e flessibile: insomma, una lingua nuova per un’opera scandalosamente nuova, che dà fondo alla descrizione di tutto l’universo. Nessun argomento sfugge a Dante: dai più bassi ai più elevati, in una straordinaria varietà di registri e commistione di stili che nessuno saprà replicare. La lingua volgare diviene con Dante capace di descrivere la realtà, di dare voce, suono e forma a tutti gli eventi, a tutti i sentimenti. In questo senso, certamente la Commedia ha avuto influenza sulla lingua della medicina, come su quella di qualunque altro settore del lessico italiano: ricordo qualche esempio appena, ricavandolo dalle Schede lessicografiche allestite con grande accuratezza e finezza per questo volume da Chiara Murru. Si veda dunque: epa ‘fegato’, più volte usato nell’Inferno, che sopravvive soprattutto attraverso l’aggettivo derivato epatico, o il sostantivo composto epatite; feto, latinismo, è prima attestazione dantesca, e ricorre nel discorso di Stazio in Purgatorio XXV 68 sulla generazione dell’anima umana; nuca ‘midollo spinale della regione del collo’, parola di origine araba (la sapienza araba era di straordinaria importanza nella scienza medica medievale, come testimonia in assoluto il caso di Avicenna), che ricorre nella scena del pasto orrendo del conte Ugolino con la testa del nemico eterno, l’arcivescovo Ruggieri, e fa da tragico contrappunto alla morte per fame inflitta al conte e ai suoi figli; polso, che indica ‘l’arteria’: così nell’espressione “le vene e i polsi”, uno di quei modi di dire che dai versi della Commedia sono quasi insensibilmente transitati nell’italiano e sopravvivono ancora nell’uso comune, con valore paradigmatico o proverbiale (anche nello storpiamento “le vene dei polsi”); omore ‘umore’, che ricorre nella descrizione, terminologicamente molto precisa, dell’idropisia di Maestro Adamo: ma tutto l’episodio di Inferno XXX, culminato nello scontro fra Maestro Adamo e Sinone, è uno straordinario trattato di medicina, come mostra molto bene il capitolo che ad esso è dedicato da Donatella Lippi.
Più in generale, poi, conta la grande attenzione di Dante ai latinismi, perché la latinità rappresenta un deposito formidabile e inesauribile, tramite il quale arricchire il volgare; molti sono i latinismi di prima mano, relativi anche al settore delle scienze, che Dante ricava dal lessico classico e adatta alle strutture della nuova lingua: anche qui non si tratta solo di parole auliche, come tetragono, ma anche di parole comuni come fertile, di applicazione anche medica; è già più specifica complessione (‘struttura fisica composita di ogni essere terreno, determinata dalla composizione di vari elementi’), dal lat. complexio, che compare nel Convivio e una sola volta nella Commedia (Paradiso VII 140).
L’espressione della compassione passa attraverso il linguaggio e la comunicazione: quali aspetti dei dialoghi danteschi, secondo lei, possono fornire un modello utile all’insegnamento/apprendimento di un linguaggio che curi?
È stato più volte osservato dagli studiosi che una grande novità della Commedia è proprio la costruzione dialogica; è il dialogo di Dante con le anime che dà animo e nerbo al racconto del viaggio nell’aldilà, che per la prima volta acquista anche in questo modo un carattere narrativo, di storia svolta, di storia raccontata. I grandi episodi della Commedia che tutti abbiamo in mente, e che costituiscono – cosa importantissima – un patrimonio comune di immagini, di concetti, di sentimenti, nascono da grandi dialoghi: Francesca e Paolo, Ulisse, il conte Ugolino, Manfredi, Buonconte, Beatrice, Cacciaguida … ne possiamo enumerare tantissimi, perché la Commedia è questo, un grande dialogo fra Dante e le anime, fra Dante e Virgilio, Dante e Beatrice. Il dialogo svolge una funzione propriamente educativa: Virgilio istruisce Dante dialogando con lui, gli indica la strada, lo mette in salvo dai pericoli dell’Inferno, gli indica l’ascesa più lieve sulle coste del Purgatorio; a Virgilio Dante manifesta le sue paure, i suoi dubbi, le sue esitazioni, le sue richieste di conoscenza. A Virgilio Dante chiede come è fatto l’Inferno, da Virgilio Dante si congeda sulla sommità del Purgatorio dopo un dolcissimo addio. Quando Beatrice ricompare sulla scena, nel canto XXX del Purgatorio, rivolge a Dante un’aspra reprimenda, che, questa volta, lascerà al poeta poche sillabe per la risposta che confesserà il suo tradimento sulla terra e il suo pentimento nella “divina foresta spessa e viva”. Nel cielo di Marte, il colloquio con l’antenato Cacciaguida, così desiderato come l’incontro di Enea con Anchise, perché rappresenta la rivendicazione della propria storia e della propria dignità, sarà aperto da versi solennemente latini, e si concluderà con la domanda decisiva da parte di Dante sul senso del viaggio e soprattutto del racconto del viaggio, ossia della Commedia stessa.
Ma il colloquio è anche per Dante altamente terapeutico: non solo nel suo rapporto di discepolo nei confronti di Virgilio, in Inferno e Purgatorio, da alunno nei confronti di Beatrice, la fanciulla amata che diventa ora la maestra che lo introduce ai misteri del Paradiso; ma anche perché attraverso l’incontro e il dialogo con le anime Dante (ri)pensa sé stesso, la propria storia, il proprio cammino di uomo e di poeta, ricorda, rivive, e anche cambia profondamente rispetto al passato. Dante cura la sua anima dialogando con chi ha amato sulla terra, con chi ha ammirato mentre era vivo, con chi ha dovuto piangere per un distacco precoce, e ora ritrova salvo, con gioia. In questo senso, sono soprattutto i dialoghi del Purgatorio a insegnare a Dante la dolcezza del ricordo, il sollievo del riconoscimento: perché il Purgatorio è la cantica della rinascita, della speranza certa, la cantica in cui la condizione delle anime peregrinanti e penitenti è la condizione stessa di Dante, e di ogni cristiano. Non per nulla è la cantica degli amici, degli artisti, dei miniatori e dei poeti, la cantica che ci restituisce ciò che è propriamente, potentemente umano.
Così Dante trepida di gioia per aver ritrovato Casella sulla spiaggia dell’Antipurgatorio, e gli chiede di riprendere l’antica consuetudine di mettere in musica le poesia che lui scriveva; ed è confortato nel ritrovare fra i golosi Forese, l’amico della giovinezza, il fratello di Piccarda, ma anche di Corso Donati: con lui si erano scambiati versi di duro realismo, pieni di offese: ma ora, sulla cornice del Purgatorio, si può fare ammenda del passato, e guarire di quegli scambi ingiuriosi. E di fronte a Buonconte di Montefeltro, il nemico valoroso, morto e scomparso nella battaglia feroce di Campaldino, ogni opposizione politica è superata, e Dante vuole solo sapere cosa è accaduto del corpo di lui in quel sabato affocato di sangue. Le parole di Buonconte manifestano l’attenzione verso il pellegrino, l’inusuale pellegrino che è vivo, ed esprimono la nostalgia di quel corpo perduto, il senso della fine, l’affidamento sereno alla volontà di Dio. Come Buonconte, come Manfredi, il giovane principe svevo figlio di Federico II, biondo e bello, ma sfigurato dalle ferite mortali, tutte le anime del Purgatorio, che riconoscono in Dante un fratello nel cammino di salvazione, dialogano con lui con parole di dolcezza, di cura, di attenzione; e di questi sentimenti si fa portavoce soprattutto Pia, non a caso una donna, che desidera per Dante, prima ancora che il ricordo di sé, il riposo: sono queste parole di gentilezza, di delicatezza, di premura, di condivisione, che curano e guariscono il corpo e l’anima.