Ospitiamo il contributo di Rory (Maria Rosa) Previti, giornalista, autrice di saggi e di numerosi articoli di carattere sociale, sociosanitario e scientifico pubblicati su diverse riviste, tra cui Hpress (Monza) e Vento Sociale (Milano). Redattrice del tabloid PalermoParla, docente liceale e universitaria, è autrice di libri, tra cui l’autobiografia clinica “La signora Acca Uno” (1997) e “Sano come un pesce” (2001), distribuito nelle scuole della Provincia di Palermo per diffondere la cultura della solidarietà e della prevenzione sanitaria.
Nessuno sceglie di ammalarsi, a nessuno piace portarsi in giro per sempre lo stigma di una malattia grave che ha lasciato pesanti e indelebili segni del suo passaggio sul corpo e un inesauribile dolore nella mente. Quel malato continua il suo percorso esistenziale, accetta i suoi problemi perché sa che l’alternativa del piangersi addosso, della depressione, del vittimismo, alla lunga stancano pure chi gli vuol bene e comunque non risolvono.
Deve andare dal medico per tenere sotto controllo il suo stato di salute o per cercare risposte a sintomi che potrebbero essere legati alla malattia cronicizzata o a qualcosa di nuovo e di diverso. L’approccio con lo specialista, inevitabile, può essere positivo o negativo indipendentemente dalla gravità della diagnosi. Il medico, infatti, sa comunicare nel modo giusto? Si può dire qualunque cosa, ma bisogna sapere scegliere il modo e il momento.
Il cardiologo effettua un ecocardiogramma. Il paziente è sul lettino, deve restare immobile, aspetta di capire il perché dell’affaticabilità un po’ aumentata negli ultimi tempi. “È grave, è molto grave!“, dice il medico e, dopo un po’ :“Non capisco…”, e ancora: “È grave!”, dimenticandosi che non sta guardando un vetrino al microscopio, né discutendo un caso con un collega. Stesa sul lettino c’è una persona. Che vuole sapere la verità sulle sue condizioni, ma avrebbe preferito sapere in un momento in cui poter fare domande, potere replicare, potere accennare un movimento, non mentre è in una chiara situazione di svantaggio. Invece le viene regalata l’angoscia. Come conservare dignità e speranza davanti a certe apodittiche sentenze? Esami successivi chiariranno che quel cuore, pur in una situazione cardiorespiratoria difficile, tutto sommato ce la fa.
Perché mandare subito in frantumi la speranza?
Un fisiatra una volta, dopo una semplice occhiata, disse ad una paziente: “Signora, lei lo sa che è storta?”.
Davvero la lingua le pizzicava, la signora avrebbe voluto dargli il fatto suo, dopotutto nessuno è perfetto se visto da vicino, ma si limitò ad abbassare le palpebre e a rispondere di sì, che lo sapeva di essere storta. A chi poteva giovare,“Cui prodest ”avrebbero detto i latini, fare una simile considerazione? Solo al narcisismo di un medico che aveva saputo subito evidenziare il problema, ma che dimenticava che dalla diagnosi si deve passare alla terapia e dato che il problema non era di facile soluzione sarebbe stato meglio tacere. L’ammalata, d’altra parte, non era lì con la speranza di essere raddrizzata, ma solo per sottoporsi ad un ciclo di fisioterapia a causa di un linfedema. Quando era stata operata al seno, in tempi in cui la mastectomia era subito e comunque radicale, in tempi in cui di cancro al seno in età giovanile si moriva quasi sempre, aveva conosciuto un medico speciale. Era stato il primo a fare la medicazione dopo l’intervento. L’ammalata quasi non voleva guardare il vuoto doloroso che aveva preso il posto di un seno piccolo e bellissimo che aveva già nutrito due bambine. Ma il giovane medico le raccontava delle amazzoni, che si facevano amputare un seno per rimuovere un organo diventato ingombrante nel tiro con l’arco. E sorrideva, senza sfuggire il suo sguardo atterrito. Lei non avrebbe tirato mai con l’arco, ma sentiva di dovere resistere a questo insulto, che doveva andare avanti con coraggio, perché fuori dall’ospedale c’era la vita e anche la possibilità di essere ancora felice, nonostante tutto.
Il giovane medico era stato capace di intraprendere in pochi minuti una vera relazione di aiuto con la paziente.
Troppo spesso invece accade che il medico prenda le distanze e non si lasci coinvolgere dal caso clinico più grave per non soffrire a sua volta. È umanamente comprensibile anche questo, se di questo si tratta.
A volte invece è narcisismo, a volte certi medici mettono con enfasi o addirittura con un filo di rabbia il dito nella piaga perché vogliono nascondere così l’incapacità di dare un’indicazione terapeutica di una qualche efficacia. La malattia batte il medico uno a zero. Ma perché non ammettere con sincerità la propria impotenza di fronte a situazioni per le quali non c’è una cura possibile? Senza cadere nel pietismo, che umilia più di ogni altro approccio.
Il malato è ben di più e assai meglio della sua malattia, con la quale non va confuso né identificato. Forse un’attenzione in più a questi aspetti nei programmi di studio dei corsi di medicina sarebbe necessaria. Sicuramente sarebbe utile a migliorare la relazione tra medico e paziente.
Il malato non deve mai essere umiliato, il medico deve imparare a parlare con schiettezza, ma deve evitare il cinismo e, se appena può, salvaguardare quel filo di speranza a cui, anche il più coraggioso tra i malati vuole aggrapparsi per trovare la forza di andare avanti.