Nicoletta Suter
Responsabile SSD Formazione
Azienda Sanitaria Friuli Occidentale Pordenone
Componente Direttivo SIMeN – Società Italiana di Medicina Narrativa
Lei è “facilitatrice di laboratori di medicina narrativa”, che cosa vuol dire? Vuole presentarsi ai nostri lettori?
Da molti anni mi occupo con passione di formazione di base e continua in ambito socio-sanitario sui temi della comunicazione interpersonale e professionale e delle relazioni di cura, con un interesse particolare per la qualità di questi rapporti, da cui credo dipendano il benessere, la felicità e la convivenza pacifica fra le persone. L’incontro con la Medicina Narrativa ha ampliato ed arricchito questa mia esperienza e proprio il mio personale percorso di formazione alla facilitazione mi ha offerto un nuovo sguardo ed un metodo potente di insegnamento – apprendimento nel campo delle narrazioni e della cura. Essere una facilitatrice di laboratori di Medicina Narrativa è oggi non solo un impegno educativo, in presenza e a distanza, sto valutando e sperimentando la possibilità di trasferire il metodo anche ad altri gruppi e contesti, per la sua potenza trasformativa e generativa.
Riscontra dei disequilibri, dei disallineamenti nel mondo della sanità e della salute? Se sì, dove?
Nei sistemi complessi le diversità prevalgono sulle similitudini: diversità in termini di etnie, lingue, generi, culture, sistemi sociali ed economici che comportano distanze e incomprensioni fra punti di vista, convinzioni e valori e che si inaspriscono ancor più laddove le relazioni fra le persone si confrontano laddove prevale un paradigma individualista e competitivo a livello di organizzazione sociale. Tutto questo porta con sé un grave carico di stress e tensione e l’innesco della conflittualità è più facile.
I luoghi della cura sanitaria ed educativa, oltre ad essere influenzati da questi elementi, sono caratterizzati da tutta una serie di disallineamenti e divergenze che proprio negli ultimi due decenni si sono mostrati con forza ai vari livelli. In primis nelle relazioni tra curanti, pazienti e loro familiari in cui possono emergere difficoltà e conflitti, ovvero veri e propri muri al dialogo, per incapacità o impossibilità delle parti di comprendere l’altrui prospettiva e quindi trovare modalità per andare verso direzioni comuni. La relazione è data dall’incontro di due o più singolarità che si connettono nell’intersoggettività: la cura si realizza in modo sufficientemente buono quando si creano le condizioni del riconoscimento e della reciprocità fra le parti, in un contesto in cui sono in gioco sempre diversi punti di vista e percezioni rispetto al tempo, allo spazio, alla corporeità, alla salute, alla malattia, alla vita e alla morte.
Già negli anni ottanta del secolo scorso Mishler (1) metteva in luce due polarità: da una parte la voce della medicina, impersonale, tecnica, centrata sulla visione del corpo come oggetto fisico (Körper) e sugli aspetti biologici della malattia; dall’altra parte la voce del mondo della vita, che si esprime in 1° persona singolare, con metafore, con una centratura sulla “illness experience” e sul corpo vissuto (Leib), con un focus prevalente sugli aspetti biografici. Se le due voci non riescono a dialogare ed a integrarsi, si sviluppano le divergenze nella cura, molte delle quali sono descritte da Rita Charon nel 2° capitolo del suo testo del 2006 tradotto in italiano nel 2019 (2).
In sintesi, è come se da un lato il curante fosse impegnato a trattare una malattia e dall’altra il paziente chiedesse di essere curato come persona (3). La letteratura ci offre molti spunti al riguardo, uno dei più famosi è il racconto di Tolstoj, “La morte di Ivan Il’ič”, in cui i sanitari sono interessati a studiare e trattare gli organi malati, mentre il protagonista del romanzo è alle prese con la questione che riguardano la sua vita e la sua morte. È ciò che accade quando la medicina studia le cause e i trattamenti delle malattie da un punto di vista statistico e di evidenze scientifiche e poi non riesce a passare dal generale al particolare, a ciò che sta esperendo ed esprimendo il malato nella sua singolarità ed unicità. Non è cioè in grado di accogliere e comprende la narrazione della sofferenza con tutti i significati ad essa attribuiti. Si pensi per esempio all’utilizzo delle scale del dolore per acquisire semplicemente un valore numerico o come occasione in cui l’operatore apre un dialogo su quel valore, attivando la narrazione del dolore da parte del paziente. Oppure pensiamo alla differenza tra un tocco freddo e meccanico del corpo-paziente rispetto ad una diversa consapevolezza dell’uso del contatto corporeo a scopo comunicativo e terapeutico, con tutti i risvolti percettivi ed emotivi ad esso connessi. Un altro esempio sono i vissuti di estraneità, di solitudine e di isolamento sociale che la persona può esperire durante un ricovero in ospedale o in altra istituzione, vissuti portati all’estremo durante la pandemia, che sappiamo essere la causa di una maggiore morbilità e mortalità dei pazienti, in particolare se anziani e se affetti da patologie stigmatizzanti. Una situazione che a causa della carenza di personale di assistenza si sta addirittura acuendo.
I disallineamenti e le divergenze sono presenti anche nel rapporto tra gli operatori e le istituzioni di cura: ad esempio i professionisti reclamano tempo da dedicare alla relazione di aiuto ma le organizzazioni sanitarie improntate ad un modello di efficienza economica dettano tempi sempre più contratti per le prestazioni sanitarie. E comunque le liste di attesa si allungano. Questo ha ricadute negative sulla qualità dei servizi e può essere considerata una concausa dell’incremento delle aggressioni nei confronti degli operatori da parte di pazienti e familiari insoddisfatti. Un altro fenomeno di disallineamento si è manifestato in tempo di pandemia, per i diversi schieramenti pro-contro vaccinazione contro il COVID. Operatori sospesi dal lavoro, diminuzione delle presenze in servizio, con conseguente generazione di conflittualità all’interno delle organizzazioni e dei team di lavoro che ha lasciato ferite aperte a tutt’oggi. Ritengo che un’altra forma di disallineamento sia legata alla scarsa attenzione al tema del benessere e della motivazione degli operatori: aver cura di chi cura dovrebbe essere un progetto permanente nella sanità pubblica poiché gli operatori sono la risorsa più preziosa per la tutela della salute dei cittadini, ma in questa direzione c’è ancora molto da fare. Lavorare in condizioni di costante sovra stress e di rischio di burn out, con la possibilità di subire aggressioni da parte dei cittadini, con un vissuto di frustrazione costante per non riuscire ad offrire ai pazienti cure di qualità, ebbene tutti questi elementi provocano tensioni all’interno dei team di lavoro e minano la collaborazione multi e interprofessionale.
Dalla mia esperienza anche nei mondi educativi si manifestano dei disallineamenti: quando ad esempio nella formazione accademica delle professioni sanitarie si percepisce la distanza tra la teoria e la pratica, o tra chi insegna e chi apprende, o quando nelle aule o nelle sedi di tirocinio si manifesta i modelli offerti dalle guide di apprendimento non sono appropriati per lo sviluppo dell’identità professionale.
Anche la formazione continua in sanità ha i suoi disallineamenti: un grosso rischio è legato all’eccessivo spazio occupato dai corsi obbligatori rispetto al resto della formazione a cui un professionista dovrebbe partecipare in coerenza con il proprio profilo professionale, un aspetto che si è attualmente accentuato in relazione a nuovi obblighi derivanti dal PNRR. Ne soffrono la formazione tecnico specialistica e quella legata allo sviluppo delle competenze comunicative, relazionali e narrative, che non sono certo né opzionali né di seconda scelta. Il fatto che si tratti di un obbligo, sebbene il fine sia condivisibile (vedi corsi sulla sicurezza dell’operatore e del paziente) spesso spegne alla fonte la motivazione ad apprendere: il rischio è quello di fare un grande sforzo per erogare una grande quantità di corsi e di crediti con uno scarso impatto in termini di acquisizione e mantenimento nel tempo di conoscenze e competenze.
La narrazione può essere uno strumento di riequilibrio? Se sì, come?
Lo scenario attuale è certamente difficile e complesso, prevalgono separazioni, rotture e distanze laddove sarebbe invece auspicabile avvicinare, unire, integrare, proprio per promuovere scelte sostenibili dinanzi alla crisi del nostro tempo.
Personalmente penso che disequilibri, disallineamenti e divergenze siano costitutivi della complessità che caratterizza il mondo socio – sanitario, non sono cioè eliminabili, ma possono essere gestiti al fine di ridurre le disuguaglianze, le iniquità e i conflitti che inevitabilmente da essi si generano. La Medicina Narrativa può essere di sostegno in questa direzione in quanto offre un metodo e degli strumenti che creano ponti per avvicinare le divergenze nei mondi della cura.
In che cosa consistono questi “ponti”? Riprendendo Mishler, occorre innanzi tutto lavorare sul linguaggio per allineare la voce della medicina con la voce del mondo della vita ed è proprio la narrazione a rappresentare il ponte tra queste due voci. Si riducono così le divergenze tra biologia e biografia, tra razionalità ed emozioni, tra Körper e Leib, tra disease e illness, tra singolarità e alterità, tra l’io e il noi. L’ascolto attento di una narrazione permette di cogliere la singolarità ed unicità dell’esperienza dell’altro ed anche della propria, aiuta a connettersi nell’intersoggettività, dove pur riconoscendo nell’altro un sé diverso dal proprio è possibile arrivare ad un riconoscimento reciproco. Charon ci ricorda che solo quando tutti coloro che partecipano al processo di cura possono dare e ricevere, davvero si rendono visibili il loro potenziale e le loro risorse. In questo modo la cura è scambio generoso e rispettoso, è possibilità di nuove visioni e scoperte, è opportunità di trasformazione e tutto ciò si concretizza nella tessitura di una nuova trama tra operatore e assistito: la storia di cura.
La Medina Narrativa è uno strumento prezioso per dare voce alle divergenze e far emergere quei disallineamenti che creano iniquità, disuguaglianze e conflitti. Infatti essa oltre ad agire nella relazione operatore – paziente, può divenire volano per far comprendere a livello istituzionale che per esempio la cura ha bisogno di tempo, che il tempo della relazione è tempo di cura, che è mandatorio un tempo/spazio per aver cura dei curanti, affinchè gli stessi possano svolgere con motivazione, costanza e competenza il loro lavoro acanto alla sofferenza.
È attraverso la formazione alla Medicina Narrativa che ci poniamo l’obiettivo di sviluppare una postura e delle competenze specifiche per generare profondi cambiamenti nei comportamenti dei singoli, dei gruppi di lavoro, dell’organizzazione nel suo insieme. Essa rappresenta una leva strategica per una profonda e radicata innovazione che richiede tempo e coinvolgimento sia dei professionisti che dei decisori ed anche investimenti in risorse umane, strumentali ed economiche. Questo tipo di formazione fa riferimento ad un modello di apprendimento di tipo trasformativo, costruttivista, riflessivo e collaborativo (4).
La sostenibilità è definita “soddisfare i bisogni della generazione presente senza compromettere quelli della generazione futura”. Questo vuol dire che non è qualcosa che riguarda solo l’inquinamento, lo sfruttamento delle risorse naturali e altre tematiche “green”, ma è un principio che può essere applicato in vari e diversi ambiti, non ultimo quella della sanità e salute. La medicina narrativa è, secondo lei, un approccio che facilita la sostenibilità nei rapporti e nei processi di cura? Se sì, in che modo?
Rispondo affermativamente e cerco di spiegarmi attraverso due riflessioni. La prima riguarda il processo di insegnamento-apprendimento della Medicina Narrativa, che ha il suo focus in una peculiare metodologia didattica, il laboratorio narrativo-esperenziale. Attraverso questa metodologia i partecipanti vengono stimolati a mettersi in gioco da un punto di vista sia professionale che personale e diventano progressivamente i veri protagonisti dell’esperienza educativa. Il gruppo in formazione è un grande punto di forza rappresentando uno strumento di confronto, di scambio e attivatore di apprendimento collaborativo.
Molteplici sono le finalità educative del metodo laboratoriale: aumento della consapevolezza delle proprie precomprensioni cognitive ed emotive, sviluppo delle capacità di stare con sé stessi e con gli altri, potenziamento delle capacità di ascolto, di abilità espressive, immaginative e creative, promozione dell’intelligenza emotiva e sociale. Nel processo laboratoriale, la narrazione dell’esperienza dei partecipanti e le relazioni che si instaurano tra discenti e formatori si trasformano in strumento di conoscenza e comprensione di sé, degli altri, del mondo. Il laboratorio è una palestra e il formatore un facilitatore di apprendimenti perché guida la riflessione, favorisce la comunicazione e lo scambio fra i partecipanti, promuove scoperte, insegna come imparare ad imparare e ad apprendere costantemente dall’esperienza e gli uni dagli altri, con apertura mentale ed umiltà (4).
I dispositivi narrativi proposti durante il laboratorio servono a ritornare sulle esperienze, per analizzarle, comprenderle e trasformarle in apprendimento, attraverso la costruzione di un significato e la preparazione di azioni da trasferire nella vita quotidiana. La riflessione sull’esperienza stimola la conoscenza di sé stessi e degli altri ed è fondamentale per sviluppare una postura curante appropriata attraverso la cosiddetta “cura della vita della mente” (5).
È proprio la triade del metodo (lettura attenta, scrittura riflessiva/creativa condivisione) che attiva in più momenti del laboratorio i tre movimenti o processi della medicina narrativa: l’attenzione, la rappresentazione, la connessione, coinvolgendo i partecipanti a livello cognitivo, emotivo e corporeo con forte impatto a livello personale e relazionale.
L’efficacia dei laboratori narrativi (e questa è la seconda riflessione) è strettamente correlata ad una particolare metodologia di insegnamento-apprendimento che è la facilitazione, che con le parole di De Sario (6) è “… quell’insieme di competenze da agire con attitudine intenzionale …con l’obiettivo di valorizzare e aumentare le risorse in gioco…per far crescere persone e gruppi, passare da interessi particolari (orticello) a interessi più ampi e comuni (campo) …”. Vista la complessità dei problemi che ci stanno di fronte, a cui il singolo soggetto non può far fronte in solitudine, la facilitazione rappresenta una pratica tesa a sviluppare un nuovo paradigma all’interno delle relazioni umane: l’obiettivo è promuovere la collaborazione, l’unione, il senso del collettivo, una “cultura del ponte”. Si tratta di una visione ecologica delle relazioni che non nega la presenza delle divergenze, delle differenze e della conflittualità nel vivere sociale, ma che tuttavia si propone di accogliere e trasformare tutto questo in opportunità di cambiamento e crescita.
All’interno di questa logica e sulla base di quanto descritto dalla letteratura (7), dal 2020 in SIMeN con Stefania Polvani e Paolo Trenta abbiamo avviato la formazione dei facilitatori di laboratori di Medicina Narrativa, un percorso articolato in un ciclo di base ed uno avanzato attraverso cui sviluppare competenze spendibili in campo educativo e nella progettazione di percorsi di medicina narrativa. L’esperienza finora condotta è stata molto positiva: la comunità dei facilitatori si sta allargando, gli stessi stanno sviluppando programmi formativi e progetti di Medicina Narrativa all’insegna dei valori della condivisione e dell’integrazione. La facilitazione non è solo una azione formativa ma una strategia per costruire ponti, avvicinare divergenze, per diminuire iniquità e disuguaglianze, per impegnarsi nella costruzione di reti e di comunità. E il concetto di comunità è particolarmente importante, la stessa parola è significativa proprio per la radice che condivide con altri due termini: comunicazione e comunione.
Pensa che la cartella parallela sia un modo per riequilibrare il rapporto tra curante e paziente e renderlo più sostenibile?
Secondo Charon i professionisti sanitari necessitano di uno strumento in cui poter scrivere con un linguaggio ordinario e in forma libera “tutto quello che non può trovare spazio in una cartella clinica tradizionale, ma che si rivela necessario e utile per la cura dei pazienti e delle loro famiglie” (2).
Di norma nella cartella clinica si scrive per descrivere la situazione del paziente con un linguaggio tecnico, con una sintassi contratta, attraverso abbreviazioni e sigle, usando la 3° persona. È questa una scrittura orientata a rappresentare il disease. Nella cartella parallela il professionista può scrivere della illness experience del paziente, delle sue vicende umane, della sua rete familiare e sociale, del contesto in cui avviene la cura. Così come può raccontare dei propri vissuti di curante, riflessioni che emergono nell’incontro con la persona sofferente e gli impatti di tutto questo nella propria vita professionale e personale. L’obiettivo è da una parte comprendere di più e meglio l’agenda del paziente per imparare a stare “dalla sua parte” (nel senso di advocacy) e nel contempo osservare sé stessi rispetto al proprio approccio alla cura e al proprio sguardo nei confronti dell’altro, della vita, sofferenza, morte.
Quella della cartella parallela è una scrittura riflessiva che viene innanzi tutto proposta nei percorsi formativi a studenti ed operatori sia all’interno dei laboratori di Medicina Narrativa che come attività “ponte” tra una sessione e l’altra. La scrittura è di per sé un atto solitario che permette allo scrittore di approfondire e riflettere sugli eventi narrati, alla ricerca di interpretazioni e nuove forme di senso. Questo tipo di scrittura è molto potente perché riesce a mettere in discussione certezze, fa sorgere curiosità e domande, crea apertura della mente e ampliamento dello sguardo, dà voce a sé e al paziente (e/o ad altri personaggi della vicenda), dà corpo ed umanizza i “casi clinici”, permette di “vedere” con attenzione e “veramente” l’assistito, consente l’espressione delle emozioni che non trovano spazio nella cartella clinica né di solito nel quotidiano lavorativo. La cartella parallela è anche strumento per avere cura di sé e della propria vita cognitiva ed emotiva (8).
In Medicina Narrativa il valore aggiunto del lavoro con la cartella parallela è la lettura e condivisione nel momento gruppale del laboratorio delle scritture, sulle quali viene applicata la triade del metodo come si fa con qualsiasi altro testo narrativo. La condivisione sottolinea la salienza della narrazione individuale che viene valorizzata dal feedback del facilitatore e degli altri partecipanti e ne fa un atto corale, comunitario. La condivisione permette lo scambio di informazioni e la riflessione sui diversi punti di vista emergenti dai testi. In questo spazio protetto del laboratorio i partecipanti sentono di potersi esporre e aprire con fiducia anche rispetto alle proprie vulnerabilità ed imperfezioni, in quanto il tutto avviene in un clima facilitante e non giudicante.
Quanto esperito nel laboratorio diventa per i partecipanti un apprendimento trasferibile alla realtà concreta, sia in termini di postura relazionale che di abilità e strumenti di uso quotidiano. La scrittura parallela è infatti un esercizio che allena riflessività, creatività, immaginazione e può essere alla portata di tutti, anche nel lavoro di cura.
La scrittura è un atto creativo e di rappresentazione che passando attraverso l’attenzione mette l’osservatore in connessione con l’osservato: l’intersoggettività diventa un dialogo tra le rappresentazioni dei soggetti in relazione. Ecco perché è così importante allenarsi sui tre movimenti/processi della medicina narrativa – l’attenzione, la rappresentazione e la connessione-, attraverso la triade del metodo – lettura accurata, scrittura riflessiva, condivisione – (9).
Accanto alla scrittura è di fondamentale importanza coltivare l’esercizio della lettura. Per esempio attraverso l’immaginazione letteraria abbiamo la possibilità di spostarci dal nostro centro, possiamo avere accesso alla vita di altri esseri umani e comprendere i fenomeni della vita e della morte, della salute e della malattia nelle diverse sfaccettature e da più punti di vista. Leggere e scrivere in generale sono azioni che influenzano cosa e come raccontiamo e ci raccontiamo. Poiché la nostra esistenza è una narrazione costante fatta da noi stessi e dagli altri su di noi, sugli altri, sul mondo, lettura e scrittura ci preparano alla responsabilità del compito nella vita personale e professionale.
Per concludere…
Le riflessioni che ho condiviso sono alla base del mio impegno come facilitatrice in SIMeN, ora anche nel Progetto di formazione e ricerca NAME della Regione Piemonte, che ha fra i suoi obiettivi anche la diminuzione dei conflitti e delle divergenze nei luoghi di cura. Stesso impegno nell’Azienda Sanitaria Friuli Occidentale di Pordenone dove lavoro attualmente, come è avvenuto in precedenza quando ho operato per 25 anni presso il Centro di Riferimento Oncologico di Aviano. Avviandomi alla conclusione mi piace dirvi che quest’anno, proprio nella mia azienda, sto concretizzando un progetto di Medicina Narrativa che ha un forte nesso con l’argomento qui trattato oggi. Assieme ad altri due facilitatori e grandi esperti di Medicina Narrativa, Christian Delorenzo e Guenda Bernegger, già nel primo semestre abbiamo realizzato un 1° ciclo di 4 laboratori rivolto a 30 operatori intitolato “Contano i legami”; nel secondo semestre svilupperemo il 2° ciclo sempre in 4 sessioni intitolato “Si può fare: generare comunità attraverso la Medicina Narrativa” (10). Credo che le parole che abbiamo scelto per nominare questo programma formativo siano di per sé evocative dell’obiettivo che ci siamo prefissati. Molti contenuti trattati in questo articolo sono parte del nostro programma che svolgeremo in co-conduzione come piccola comunità di facilitatori per insegnare a fare comunità con e tra partecipanti.
In convergenza con i programmi educativi ho promosso la formazione alla facilitazione di una decina di operatori della mia azienda con l’intento di creare una rete multiprofessionale di “link professional” per diffondere il metodo e gli strumenti della Medicina Narrativa. Sono sempre più convinta che dalla connessione autentica fra esseri umani possono germogliare i semi di una rivoluzione gentile ma costante, determinata e sostenibile per generare un nuovo umanesimo all’interno delle nostre organizzazioni curanti, rispettosa della dignità di ogni essere vivente.
Bibliografia di riferimento
- EG. Mishler (1984) The Discourse of Medicine: Dialectics of Medical Interviews, Greenwood Publishing Group
- R. Charon (2019) Medicina narrativa. Onorare le storie dei pazienti, Milano, Raffaello Cortina
- M. Marinelli (2016) Trattare le malattie, curare le persone. Idee per una medicina narrativa, Milano Franco Angeli
- P. Trenta, S. Polvani, N. Suter (2022) Formazione in Dizionario di Medicina Narrativa. Parole e pratiche,Brescia, Editrice Morcelliana
- L. Mortari (2013) Aver cura della vita della mente, Roma, Carocci
- P. De Sario (2021) Facilitazione, Milano, Franco Angeli
- R. Charon, S. DasGupta, N. Hermann, C. Irvine, ER. Marcus, ER. Colón, D. Spencer, M. Spiegel, (2017),The principles and practice of narrative medicine, Oxford-Oxford University Press
- P. Trenta, N. Suter (2022) Scrittura in Dizionario di Medicina Narrativa. Parole e pratiche, Brescia, Editrice Morcelliana
- C. Delorenzo, T. Desfemmes, M. Vignot, JM Beleyte, R. Charon, Des groupes de Médecine Narrative dans en centr hospitalier: l’expérience e le dispositif du Centre Hospitalier Intercommunal de Créteil (CHIC), Revue Médecine et Philopsophe (5) – 2021, p 47-54
- https://formazione- asfo.sanita.fvg.it/tom_fvg_asfo/dettaglicorso.html?idCorso=38552
Grazie Nicoletta, bellissimo, perfino commovente .
Buona vita a te ❤
Stefano