Estratto da Consigli per Essere Geniali. Per saperne di più: https://www.medicinanarrativa.eu/consigli-per-essere-geniali.
Beth Harmon
Beth Harmon è la protagonista del libro di Walter Tevis The queen’s gambit, più nota al pubblico italiano come La regina degli scacchi. L’opera scritta nel 1983 da Walter Tevis (Figura 1), è stata “tradotta” in una serie amatissima dal seguito di Netflix dal titolo omonimo, dove la regina degli scacchi, Beth Harmon, viene interpretata da tre diverse Beth, la prima, la bambina, che, dopo aver perso la mamma per il suo suicidio, e chiusa dentro un orfanatrofio incontra un bidello, Mr. Scheibel, che le insegna di nascosto a giocare a scacchi. Una seconda per la preadolescenza, quando viene adottata da una famiglia con padre e madre in separazione, e una ultima Beth ragazza e giovane donna – incarnata dalla splendida attrice Anya Taylor Joy, che ha incantato il mondo con i suoi occhi castani e i suoi looks impeccabili. Beth è carina, non bella: ma è un genio al mondo. La più brava giocatrice di scacchi al mondo perchè vince il campione mondiale.
Sicuramente lo scrittore sapeva ben giocare a scacchi, sfidava in adolescenza la sorella, e ringrazia i diversi aiuti che l’hanno sostenuto nella descrizione articolata, quasi ossessiva, di partite complesse: ma Tevis, autore di libri che hanno ispirato molteplici film come l’Uomo venuto sulla terra, al di là del sapere giocare a scacchi, immaginava e intravedeva i comportamenti e le qualità di un genio fin da bambino, come nel caso della riuscitissima Beth Harmon.
Gym was bad and volleyball was worst… Beth could never hit the ball right… most of the girls laughed and shouted when they played but Beth never did… Beth tried it a few more times and did it better… After e few times it got to be easy… Beth worked on it over the next week, and after that she did not mind volley ball at all.
La palestra era pessima e la pallavolo era peggiore… Beth non riusciva mai a colpire bene la palla… la maggior parte delle ragazze ridevano e gridavano quando giocavano, ma Beth non lo faceva mai… Beth provò qualche altra volta e lo fece meglio… Dopo alcune volte divenne facile… Beth ci lavorò per tutta la settimana successiva, poi non le dispiaceva giocare a pallavolo.
Non è che a Beth non importasse del tutto giocare a pallavolo: se la faceva andare bene, fino a non soffriva più giocando a pallavolo. Ma a Beth non piaceva. Non c’era la spinta necessaria, quel principio del Piacere sul quale si possono scegliere le cose da amare. Ci si applicava; ma non ne traeva gioia, in quell’ambiente così freddo, anaffettivo e cupo come un orfanatrofio negli anni ’50 negli Stati Uniti d’America conservatori, guidati dal presidente Eisenhower.
The janitor to Beth: “You should be upstairs with the others”. “I don’t want to be with the others” she said “I want to know what game you’re playing”. “It’s called chess” … ” Will you teach me?”… “Girls don’t play chess” … Mr. Sheibel was silent for a while. Then he pointed at the one with what looked like a smashed lemon on top. “This one?” … Her heart leapt – answering “On the diagonals”
Il bidello a Beth: “Dovresti essere di sopra con gli altri” “Non voglio stare con gli altri” disse lei “Voglio sapere a che gioco stai giocando”. “Si chiamano scacchi” … “Mi insegnerai?” … ” Le ragazze non giocano a scacchi” … Il signor Scheibel rimase in silenzio per un po’. Poi indicò quello con sopra quello che sembrava un limone schiacciato. “Questo?” … Il suo cuore saltò – rispose “Sulle diagonali” …
Beth osserva il bidello che gioca da solo, e Lei senza sapere che quel gioco si chiama scacchi, inizia a “intuirne” alcune regole, tra cui il fatto che l’alfiere (quello con il limone schiacciato) muove in diagonale. Il bidello, il Signor Scheibel le ricorda che dovrebbe stare con gli altri ragazzi dell’orfanatrofio. Beth risponde con un “non voglio”, un NO, perché la Harmon sa che è attratta da questo gioco, inadatto per le ragazze, secondo lo stereotipo di genere, in un’America formata da una middle class di casalinghe molto attente a come si cucina l’ultima torta alle mele (buona, peraltro). Quanti NO abbiamo visti pronunciare nei capitoli precedenti? Emily Dickinson alla scuola che la voleva cristiana e al matrimonio, Jane Austin al matrimonio, Nikola Tesla al sacerdozio che il padre gli voleva imporre, Ignaz Semmelweiss allo studio del Diritto scelto dal padre che lasciò perché innamorato di Medicina.
Quella sera, “The noises had already faded into the white, harmonious background. Beth lay happily in bed, playing chess”. “I rumori erano già svaniti nello sfondo bianco e armonioso. Beth giaceva felicemente a letto, giocando a scacchi.”
Beth ha capito cosa le dà la felicità: non è giocare a pallavolo, non è stare con gli altri, ma è immaginarsi nella sua testa una partita di scacchi.
Mr. Scheibel, dover averle spiegato altre regole del gioco, riconosce, una volta battuto, il suo talento. Chiama un altro Maestro di scacchi del Kentucky, paese più noto per il Kentucky Fried Chicken e Beth li vince entrambi. Il maestro, Mr. Ganz gli regala una bambola che Harmon butta nel cestino della spazzatura: lei voleva una scacchiera, non una bambola per le bambine, e non l’avrà per anni a venire, fino a quando non vincerà il suo primo premio, una volta adottata, proprio nel Kentucky. Gioca di memoria, di scacchiere, di intuizione visualizzate nella sua mente, un po’ come Dante si immagina la sua Commedia, Tesla immagina la corrente alternata e i macchinari per produrla e Coco Chanel non dipinge i bozzetti dei suoi vestiti su carta ma semplicemente li crea addosso a un manichino. D’altro canto anche Einstein- genio non contemplato in questo libro, la teoria della relatività l’aveva vista, e non scritta. Poi aveva dovuto scriverla per convincere la comunità scientifica che non ne voleva sapere di eguagliare e unire materia e energia (concetto peraltro già anticipato da Tesla). Tornando a Beth, la Harmon verrà poi punita nel collegio per aver rubato troppi tranquillanti (forse anche psichedelici?) e a lei verrà impedito di coltivare la sua unica vera passione, gli scacchi.
Una volta adolescente, e una volta morta la sua unica fonte di relazione, Mrs. Wheatley, la mamma adottiva abbandonata dal marito che, accortasi del talento, le sta accanto anche per uscire assieme dalla miseria (infatti si fa dare il 10% delle vincite della ragazza), sprofonda in un vuoto fatto di alcool e tranquillanti. Benché sia campione statunitense, una domenica mattina, con il cervello semidistrutto dalle dipendenze perde a scacchi proprio nella sua vecchia terra, “il Kentucky”, con un ragazzino contro il quale era impossibile e ridicolo infilarsi una situazione di perdita.
Quattro elementi la tireranno fuori dall’incubo di “scomparire” – lei, la Regina degli scacchi, necessari perché l’intelligenza visuo spaziale, l’immaginazione non le basta più: un’intelligenza introspettiva intrapersonale che le porta consapevolezza, acquisita durante la visita da adulta nell’orfanatrofio, per i funerali di Mr. Scheibel, dove comprende la ruvidità della direttrice e la tenerezza del bidello che nel sottoscala conservava ritagli di giornale con le foto di Beth mentre sollevava le foto dei suoi tanti trofei vinti attorno al mondo. Sarà il rivedere l’angustia di questo sottoscala, quasi un ripostiglio che la portano alla consapevolezza che se fosse nata in “un’altra famiglia”, l’avrebbero forse riconosciuta prima come talento unico, mandata subito a studiare gli scacchi, non punita togliendole la cosa che più amava e in cui era geniale. Comprende, con sofferenza enorme, attraverso questa introspezione che ha fatto tutto quasi da sola.
Il Secondo elemento, conseguente al primo, è la necessità di formazione continua: nasce autodidatta, studia i trafiletti delle riviste di scacchi che ruba, e comincia a studiare, a informarsi a colmare il vuoto di competenza che una persona autodidatta sente di avere, sa che ci sono stati anni in cui avrebbe dovuto studiare altro ma quel tempo le è stato rubato da altre occupazioni. Beth si impegna prima delle gare, mentre i suoi concorrenti sino in giro a visitare città perché sente di doversi applicare molto di più di chi “nasce imparato”. Studia non solo le sue mosse, ma le partite di quelli che saranno i suoi concorrenti. E studia il russo, per capire cosa dicono, e come pensano i campioni mondiali di scacchi. E così anche Dante è quell’autodidatta, che parlava latino sì, ma mancava del greco come studio classico e forse si dedica, in mezzo alla depressione “la sua selva oscura”, al lancio della nuova lingua, il Volgare. Coglie l’Italiano che ascolta per le strade, lo scrive, e ce lo regala nella sua Commedia. Beth riesce a “riveder le stelle”, grazie all’applicazione continua dello sforzo di applicazione. Si rende conto che da solo il talento non basta.
Il Terzo elemento è il suo chiedere aiuto con l’ intelligenza interpersonale: sa chiedere aiuto selettivamente alle persone giuste nei momenti giusti. Nel pozzo di droga e alcol, un mattino conscia di attentare al proprio cervello e al proprio talento (quasi più che a sé stessa) cerca la sua compagna di orfanotrofio Jolene, che si rivela una splendida amica. Lei studia e lavora come insegnante di educazione fisica, rimette in forma Beth e le sta vicino. E quando no sa da che parte girarsi per vincere il campione russo, ecco che cerca di allenarsi con i migliori campioni disponibili. Cosa che le viene spiegato è rarissima in America, dove si lavora più isolati mentre è all’ordine del giorno per i Russi, dove tutti assieme provano per giorni interi le partite prima dei concorsi. Gioco individuale in USA e gioco di squadra in Russia. Ecco perché così tanti campioni. Penso a altri geni come Leonardo, e alla sua lettera per farsi accogliere a corte da Ludovico il Moro, non solo come pittore ma come ingegnere di macchine belliche per la difesa. Penso ai finanziamenti che Pasteur riesce a farsi dare da Napoleone III per il suo laboratorio che diventerà l’Institut Pasteur. E i Beatles, che con la loro equazione di gruppo 1+1+1+1 = ∞, hanno inventato un numero di motivi musicali e testuali impressionanti.
E poi c’è il Quarto elemento del potere riuscire, forse quello più significativo: quando Beth “è in impasse” durante le partite, non sa cosa muovere, si trova sulla difensiva, rischia di perdere, non sente più la necessità di vincere l’altro, non sente più la competizione della guerra: non guarda in faccia “l’avversario” ma si concentra sull’estetica della scacchiera, delle mosse, sul senso del piacere che lei ricava dal gioco. L’altro non esiste più. Lei gioca per onorare gli scacchi. Perché li ama. E così- e questo sarà solo una conseguenza- lei vince.
Il Quarto elemento lo possiamo chiamare intelligenza erotica, dove per erotismo intendiamo piacere, fascinazione, Voluntas, principio di piacere. amore. E questa qualità è presente in tutti i geni di cui abbiamo letto nei capitoli precedenti: non solo la capacità di dire NO, ma di perseguire instancabilmente, di coltivare la propria passione.
“Sunlight filtered through the trees on her…When she stopped at his table he looked at her inquisitively, but there was no recognition on his face. She sat behind the black pieces and said carefully in Russian, “Would you like to play chess?”
La luce del sole filtrava attraverso gli alberi su di lei… Quando lei si fermò al suo tavolo lui la guardò con curiosità, ma non c’era alcun riconoscimento sul suo volto. Lei si sedette dietro i pezzi neri e disse attentamente in russo: “Ti piacerebbe giocare a scacchi?”.
Queste le ultime righe del romanzo di Walter Tevis. Il piacere degli scacchi, appunto, anche con un perfetto sconosciuto che non sa che lei è la geniale campionessa mondiale.
La Voluntas
Ho usato Beth Harmon come simbolo di genialità: certo, ha i limiti del personaggio letterario, ma penso sia efficace per spostare l’attenzione dalle biografie vissute a un personaggio fantastico, che molti di noi conoscono e ammirano. Avrei potuto scegliere Odisseo, dal multiforme ingegno, Sherlock Holmes, il conoscitore dei minimi indizi, ma lei mi ha avvinto e scelto, non solo per la serie TV ma per la prosa asciutta e emozionante del romanzo di Tevis. Non me ne vogliano gli intellettuali, i geni scomparsi, i geni vivi e i geni delle generazioni future.
La Voluntas viene al primo posto nelle qualità di un genio. Cosa è la Voluntas, la lascio in latino perché è più simbolica che non la volontà italiana: l’etimologia deriva dal latino “Velle” che significa volere, e in questo volere è implicito il significato di desiderare, di scegliere, di qualcosa che origina spontaneamente, di piacere. Forse tra tutti i sinonimi possibili, il termine che attira di più l’attenzione è quell’avverbio “spontaneamente”, le cui radici ci dicono che è proprio qualcosa che viene avanti nello spazio, senza spinta, coercizione, in libertà. È un richiamo ad agire in modo spontaneo, senza troppi calcoli di ritorno, di vantaggio, senza eccessi di razionalizzazione. È un richiamo ad Amare, e per questo scrivo di intelligenza erotica, perché amare significa anche scegliere sulla base di un’attrazione, di un fascino totalizzante.
La parola Volere è uno dei 64 termini inclusi nel Metalinguaggio Semantico Naturale (MSN), la metalingua esistente universalmente nelle lingue del pianeta: tra le altre parole c’è Io, Tu, il Corpo, Pensare, Sentire (come emozioni, to feel), Conoscere, Potere (essere in grado di), Fare, Accadere, Vivere e Morire…. Questioni esistenziali. Non c’è essere umano che non voglia, che non aspiri, che non desideri, se la mappa delle parole è l’espressione di come siamo e cosa pensiamo. Leggiamo che la grande assente tra queste parole universali è Dovere: la possiamo costruire assemblando queste parole nella frase “Io voglio che tu faccia questa cosa”. È comunque una costruzione, originariamente non c’è il Dovere, e nell’evoluzione del Bambino, c’è il Sentire, e il Volere. Il bimbo fino a tre anni Vuole le cose: solo con il tempo impara l’esistenza dei limiti; la Volontà di espressione è un atto spontaneo. Non è da giudicare come un atteggiamento egocentrico che nega l’altruismo, è che noi esseri umani siamo fatti anche per volere, per essere in grado di fare (can) – sono tutti universali. Il Dovere è una parola più tardiva che nasce anche come forma di controllo sociale.
Il riconoscimento
Per riconoscimento intendiamo i primi familiari, maestri, vicini che ne riconoscono il talento e l’inclinazione: non il successo sconfinato. Senza questo primo riconoscimento contestuale – necessario per potere canalizzare le proprie inclinazioni- non potrà poi esistere l’attività del genio.
L’accesso alla nostra identità più autentica a volte non avviene solo attraverso un atto di introspezione intuitiva, come ci dice Paul Ricoeur, filosofo dell’arte del Riconoscimento, ma attraverso una più lunga deviazione che implica il linguaggio, la capacità di agire, l’emergenza della responsabilità morale. Il sé, pronome accusativo e riflessivo accede alla propria identità attraverso l’Altro che incontra, quindi solo comprendendosi come altro: così nascono gli atti- le opere che una persona pone nel mondo, e che sono la manifestazione indiretta della sua identità. Non è così semplice capire in cosa possiamo eccellere, questo è quello che afferma Ricoeur: l’incontro con l’Altro ci aiuta a comprendere il nostro senso nel mondo.
La meraviglia
Un genio quando ci mostra le sue opere ci meraviglia: al Volere del suo Fare, segue l’Accadere della nostra Percezione, che cogliamo con i nostri sensi, ragione e sentimento, sia che si tratti del tubino nero di Coco Chanel, sia stando accanto a Semmelweiss mentre si lava le mani aggiungendo il disinfettante sia, di fronte alla Notte Stellata, sia ascoltando Blackbird singing in the dead of night dei Beatles.
La parola deriva dal latino mirabilia, cioè “cose ammirevoli”, dal verbo mirari, “guardare con meraviglia” con ammirazione e anche con stupore di fronte alle cose nuove, allo straordinario, ai fenomeni della natura, “il sublime” lo chiamava Kant, “il cielo stellato sopra di me”, e all’ignoto. Di più, la parola latina è probabilmente frutto di una crasi “Mir-abilia” che nasce “da “mir-” da guardare- e habilis “capace di”, cose capaci di essere guardate. Siamo quindi nel pieno della percezione visiva, ricordando che per i greci e i latini “guardare” era anche conoscere.
In inglese la parola Wonder, meraviglia, invece significa anche Vagare, Girellare, insomma Alice va nella terra delle meraviglie (Wonderland), con un gioco di parole; va nel mondo del Vagare, per capire chi è al mondo, e ne sente l’enigma “‘Who in the world am I?’ Ah, that’s the great puzzle!”
La meraviglia è per gli anglosassoni qualcosa che non ha solo a che fare con il senso del vedere, ma con i nostri movimenti, ci fa perdere, distrarre, deconcentrare dalla strada maestra. E per generare meraviglia, l’invito è quello di lasciare le vie più note per abbracciare i sentieri ignoti, che semplicemente non conosciamo. Anche un viaggio interiore, come abbiamo fatto chiusi a casa durante il Covid-19, e abbiamo scoperto la forza della nostra resilienza, immaginazione, creatività e volontà.
E allora il nostro possibile capolavoro quotidiano, in questo vagare nel paese delle Meraviglie è alzarsi tutte le mattine con la buona ragione per festeggiare il giorno del nostro Non Compleanno come fa Il Cappellaio Matto al Thè in cui partecipa Alice (Figura 2). Una ragione meravigliosamente semplice. Festeggiare ogni giorno di vita. E geniale, solo che ci viene in mente troppo poco spesso.