Vuole presentarsi…
Sono una ricercatrice in sociologia presso il dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia all’università di Bologna e il mio ambito di formazione è la sociologia della salute. Nelle mie ricerche ci dono due aspetti importanti: il ruolo delle relazioni tra gli stati di malattia, di salute e di cura e le possibilità offerte da nuove tecniche definite creative (diari e fumetti) nella formazione di professionisti sanitari e nella socializzazione di tematiche complesse perché cariche di tabù e/o stereotipi.
Quali sono le sfide che la sociologia si trova ad affrontare con l’AI?
L’AI pone delle sfide in tutti gli ambiti del sapere. Quindi anche la sociologia è chiamata a guardare come i fenomeni in essere cambino e come se ne creino di nuovi.
Alcuni sono più immediati di altri e altri hanno più effetti a lungo termine come: l’impatto socio-culturale, la comprensione e la consapevolezza pubblica e il valore che hanno i dati immagazzinati dall’AI.
l’impatto socio-culturale.
Il progresso in fieri costante e incalzante dell’AI obbliga anche la normativa a non essere da meno, nonostante il rapporto tra le due sia più simile a una rincorsa esasperata e quasi impossibile.
Normare l’AI è necessario perché grazie alle leggi possiamo imporre dei limiti a eventuali rischi e minacce. Le leggi applicate all’AI, sono indispensabili perché ormai la società è intessuta anche di relazioni digitalizzate. Sono veramente rare le realtà culturali che sono rimaste escluse da questa innovazione, quasi tutte le società oggi condividono la realtà in rete e hanno un’identità digitale.
La comprensione e la consapevolezza pubblica.
Collaboro insieme ad altri ricercatori a un progetto internazionale sull’applicazione dell’AI nella cura dell’Alzheimer e trovare una definizione condivisa e univoca di AI è stato molto difficile. Generalizzarla a un pubblico ampio è ancora più difficile, complice il fatto di non sapere ancora come l’AI scelga le informazioni online.
Nell’ambito della salute e della cura c’è molta preoccupazione sulla spersonalizzazione del rapporto tra medico e paziente. La paura consiste nel non poter o non sapere determinare a priori quali siano le sorti della relazione che, oggi invece, intercorre tra medico, paziente e caregiver.
L’utilizzo dell’AI in campo medico, inoltre, può generare un aumento di disuguaglianze digitali perché non tutte le zone possono beneficiarne per la cura dei loro pazienti.
Dovrebbero essere messe a disposizione di ogni territorio delle risorse per le infrastrutture necessarie ad attuare tale cambiamento tecnologico.
Ma non sempre l’approccio a queste nuove tecnologie nell’area della sanità è corretto, perché nonostante si abbiano le giuste informazioni, i medici, in alcuni casi, non le utilizzano perché ritenute, forse, meno sicure.
Dobbiamo sottolineare anche un altro tema, secondo me molto affascinante, che è quello relativo alla sorveglianza dei dati da cui ha avuto origine il capitalismo della sorveglianza, inteso come un sistema che percepisce i dati come delle vere e proprie merci. Le aziende, ad esempio, sono solite raccoglierli e comprarli per migliorare i propri prodotti e assecondare i bisogni e le volontà dei possibili acquirenti.
Il rischio principale, però, a cui alcune realtà, o persone, sono ancora esposte è il furto dei dati online o il loro utilizzo ingannevole e manipolativo da parte di terzi.
In che modo può contribuire la sociologia nella comprensione dell’AI e nel suo sviluppo?
Si dovrebbe evitare uno sguardo deterministico sull’AI, cioè uno sguardo catastrofico (tecnoscettico) o troppo entusiastico.
Sarebbe utile adottare un punto di vista integrato, cioè riconoscere l’AI come una presenza costante nelle nostre vite. Capire che non è un’entità astratta ma ha un impatto nella nostra quotidianità e che noi abbiamo creato una relazione con l’intelligenza artificiale è fondamentale; miscelando e sovrapponendo il suo valore con l’apprendimento quotidiano. Nella pratica di cura, ad esempio, esistono medici e professionisti sanitari specializzati sulle conoscenze di base dell’informatica.
Ma è un cambiamento che richiede tempo. Le modalità in cui l’AI prende decisioni in campo medico sono poco note e poco regolamentate. Ad esempio, noi, a Bologna, stiamo lavorando a un progetto che ha a che fare con gli algoritmi e le discriminazioni sociali. Questi algoritmi se non analizzati e corretti, riproducono le disuguaglianze presenti in un determinato contesto culturale. Negli Stati Uniti, sono stati svolti svariati esperimento su questo stesso tema ed è stato dimostrato che in America gli algoritmi dell’AI sull’area medica tendono a sfavorire le donne e soprattutto le donne di colore. La sociologia può ovviare a questi problemi e essere di aiuto acquisendo un approccio interdisciplinare, con cui può tenere in considerazione più variabili nel guardare lo stesso fenomeno.
Come ovviare, secondo lei, a quello che ha detto Papa Francesco nel G7 riguardo all’AI? È vero che potrebbe limitare la visione del mondo a realtà esprimibili in numeri e racchiuse in categorie preconfezionate?
Evitando posizioni deterministiche o approcci ipercritici e iperentusiastici e guardando alla relazione che si crea con gli esseri umani. Dovremo concentrarci su come noi le intendiamo o su come ci relazioniamo a queste tecnologie. Esiste, infatti, una relazione tra i due che non è soltanto uno sfruttamento della tecnologia da parte dell’uomo.
Per evitare anche che l’uomo la umanizzi?
Nel mondo del lavoro, ad esempio, l’AI sostituirà in alcune mansioni l’uomo però non sappiamo in che modo. La sua introduzione, può creare, e questo è già visibile, nuove figure e nuove possibilità per l’essere umano. In particolare nell’ambito medico, grazie all’accesso a internet e a varie assistant AI, il paziente è diventata una persona “esperta”, cioè più consapevole. Tuttavia non penso che la figura del medico potrebbe mai venire sostituita completamente da queste nuove tecnologie nonostante una piccolissima percentuale di rischio, per questo tipo di previsioni, ci sia sempre.