È nel Corno d’Africa che nasce questo Progetto di ricerca di cui mi sono occupata recentemente e dove io risiedo da 14 anni e ho fatto, e continuo a fare, esperienza professionale e umana di grande significato, non fosse altro perché tutto ciò che mi circonda è caratterizzato da pregnanza valoriale contagiosa. Chi è passato da questo Continente sa di cosa parlo, e forse non si è ancora scrollato di dosso quel mal d’Africa, di cui spesso non si guarisce, se non facendoci ritorno a più riprese. L’Africa è davvero un altro mondo, un insieme di Afriche, e quindi di Stati, così diseguali, e per alcuni versi simili.
Il Project work che ho sviluppato si è inserito in un progetto di cooperazione internazionale più ampio e complesso, che è stato attivo per vent’anni in una delle periferie di una cittadina del Kenya, in una delle 47 Contee e delle 42 lingue che rendono questa nazione così variegata e dinamica, fatta di mille volti e di altrettanti paesaggi: dalla montagna alla pianura, dalla savana al lago, dal deserto all’oceano. Il tema trattato è quello socio-sanitario e il mio interesse è stato quello di indagare le dinamiche che hanno accompagnato i nostri bambini e adolescenti, ormai giovani adulti, dopo aver lasciato la nostra Children’s Home, nella quale risiedevano da molti anni. Ragazzi tutti nati con il virus dell’HIV e quasi tutti orfani, figli di madri decedute di AIDS o da malattie ad esso correlate.
L’intenzione era quella di valutare, attraverso strumenti validati come il Wheel of Plutchick e il Brief-Cope di Carver, ma più di tutto, con l’ausilio delle narrazioni semi-strutturate, l’impatto psico-socio-emotivo, a seguito del processo chiamato strategia di uscita, che ha coinvolto tutti i nostri minori beneficiari, le loro famiglie residue e lo Staff locale, impegnato durante e dopo il rientro nelle comunità di provenienza dei nostri ragazzi. Un’ indagine durata alcuni mesi e che mi ha permesso nuovi sguardi, nuovi lumi e altrettante chiavi di lettura su ciò che sono stati gli esiti del ritorno a casa dei vijana & delle wasichana, usciti dalla nicchia di cura in cui avevano trovato casa nella loro infanzia.
In venti anni di attività, oltre un centinaio di ragazzi hanno vissuto nella nostra Children’s Home, 28 di loro sono deceduti nel corso dei primi anni a causa dell’HIV, delle infezioni opportunistiche, di un sistema immunitario realmente compromesso. Arrivavano da noi in condizioni estremamente precarie e la sopravvivenza non era garantita. Ma le terapie avanzavano, gli effetti collaterali si riducevano e le cose pian pianino si mettevano meglio. Abbiamo vissuto con loro anni di apprensione, di lutti, di fatiche, ma anche di molte gioie, obiettivi realizzati, felici accadimenti ed infine consegnato loro la cassetta degli attrezzi per la vita: fiducia nelle loro capacità, vigore per affrontare le avversità, radici alle quali saper guardare, speranza che è sempre stato il pane quotidiano.
Per questa ricerca finalizzata al conseguimento del Master in Medicina Narrativa Applicata, ho scelto un campione ristretto di loro, 7 ragazze e 5 ragazzi, tre membri dello Staff che hanno operato in questa istituzione caritatevole e 3 parenti stretti.
È stato un lavoro sinergico che ha chiamato in causa anche la clinical officer e l’assistente sociale della nostra Children’s Home. Senza di loro questo mio lavoro non avrebbe conosciuto i natali. È proprio il caso di dire che ISTUD è riuscito a portare la Medicina Narrativa oltre oceano, in una delle nostre contee del Kenya.
Maria Giulia Marini e Francesco Minetti hanno permesso che questa avventura di ricerca spiegasse le ali. Tutti i relatori del Master sono stati fondamentali tasselli affinché le tecniche, i metodi e le classificazioni delle narrazioni fossero applicati.
I nostri tre target sono stati partecipativi, fecondi di parole, curiosi di esplorare – attraverso le riflessioni personali – all’interno delle trame di vita, fatte di introspezione, ma anche di plasticità e concretezza, di pochi vezzi o eccessi.
Alcuni dei ragazzi hanno ringraziato per l’opportunità che è stata loro offerta di mettersi in gioco a carte scoperte, complice la narrazione, di avere occasione di guardarsi dentro, come mai avevano fatto prima, e aprire un varco a quel futuro che si staglia davanti, attraverso i loro occhi fatti di orizzonti infiniti.
Ciò che è venuto fuori dal Project work è una tela variopinta e complessa, fatta di temi, che più o meno si ripetono, toccando tutti e tre i target:
dalle relazioni con i membri della famiglia, alle relazioni nel villaggio di appartenenza; dalla resilienza nonostante le sfide affrontate, alla pregnante presenza di Dio nella loro vita; dallo stigma sociale, al desiderio di avere una famiglia; dal perseguimento degli studi, all’impegno fattivo nella comunità.
Una ragazza su 12 ragazzi che hanno partecipato a questo progetto di ricerca, ha sollevato la domanda che sempre usciva fuori durante il tempo della loro adolescenza, quando vivevano con noi nella Children’s Home:
WHY ME ?
La domanda delle domande, che lascia strascichi nel cuore, che riapre ferite, mai, in verità, del tutto chiuse. Che interroga sul perché la genitrice ha lasciato siffatta eredità nella sua carne. Questo interrogativo camminava di pari passo con degli altri, dentro quella bisaccia che portano i nostri viaggiatori di lungo corso.
Perché mia sorella e mio fratello non sono sieropositivi ed io sì?
Perché devo andare a scuola, impegnarmi nello studio, se un giorno morirò?
A questi quesiti bisognava essere pronti a dare qualche risposta, fornire scampoli di senso, aprire una strada da percorrere insieme.
Dal Fiore di Plutchik, diverse sono le emozioni emerse: dalla paura alla tristezza, dall’accettazione all’interesse, dalla rabbia alla fiducia, dalla noia all’ammirazione.
Dal protocollo di valutazione Brief-Cope di Carver (28 item) che abbiamo voluto utilizzare per valutare come i nostri tre target affrontassero le varie avversità del presente, gli stili di coping che sembravano essere i più utilizzati erano quelli dell’approccio pratico alla risoluzione del problema, ma per alcuni, anche l’utilizzo della strategia di coping mirata a regolare le emozioni associate alla situazione detentrice di stress.
Dalle Narrazioni sono emersi, quasi per tutti i protagonisti dei racconti, dati incoraggianti, che si esprimono attraverso relazioni significative sia dentro che fuori lo spazio abitativo, una buona salute mentale, l’attenzione costante allo sviluppo personale e integrale. Tra le righe, la soppressione virale, l’aderenza alle terapie, la gratitudine, la compassione, la cura di sé, la fiducia, le attività piacevoli, l’apertura a nuove esperienze, il coinvolgimento creativo nelle comunità locali, la definizione di obiettivi, le aspettative concrete. Di contro, anche pensieri ruminativi, abuso fisico o psicologico, influenza negativa dei vicini di casa, giudizio della gente, stigma sociale.
Interessante lo studio che si è fatto sul linguaggio utilizzato dai tre target coinvolti nell’indagine: dai ragazzi, da alcuni dei parenti, da tre membri del nostro Staff. Linguaggio personale, e per certuni, anche simbolico.
L’uso delle metafore è stato rivelatore di stati d’animo che danzano con l’immagine che ciascuno ha di sé. Sì, perché i ragazzi, per descriversi, hanno usato la pregnanza della parola metaforica: la colomba, il sole, il fiore, la stella, il leone, il giardino, il sale della terra. E lo Staff, per raccontare il baratro che è l’HIV, lo ha dipinto così: angel of doom, angel of death, cross, brand, stinging nettle.
Attenzione abbiamo altresì posto al metalinguaggio semantico naturale (Anna Wierzbicka), i semantici primi utilizzati nelle narrazioni raccolte.
Una per tutti, vale la parola universale good, citata dai ragazzi ben 43 volte, che ci è sembrata come quiete dopo la tempesta.
“Credo che la Medicina Narrativa sia un ausilio alla salute, cura con le parole.
È un albero, un grembo che crea, il cui frutto maturo è la narrazione che dà spazio alle istanze dell’altro”.
Maria Grazia Munzittu, Cooperante Internazionale